Che la riforma della Costituzione diretta ad introdurre il “premierato” nel nostro ordinamento istituzionale, sia considerata da Giorgia Meloni “la madre di tutte le riforme” la dice lunga. Al di là del dato tecnico-istituzionale, il punto della questione è decisamente di ordine politico generale ed è la stessa destra ad intendere la cosa in questi termini. Una tale riforma dà conto, infatti, della cifra culturale complessiva cui la destra riconduce la sua azione di governo e la ricerca di egemonia.
Insomma, in gioco c’è ben di più che non la stabilità dei governi. La quale, anzi, funziona come “cavallo di Troia” per introdurre nel nostro sistema politico, nelle forme oggi storicamente possibili, quel “principio di autorità” che sta a cuore alla destra e risveglia nel suo animo antiche memorie. In gioco c’è piuttosto l’effettiva sovranità del popolo, il pieno diritto di cittadinanza degli italiani ed, a monte, di tutto ciò, addirittura la dignità delle persone, la libertà e la democrazia. Valori irrinunciabili per chi si pone nella cornice della Dottrina Sociale della Chiesa e, dunque, da difendere e da promuovere senza timidezze.
In sostanza, “la madre di tutte le riforme” va affrontata da chi non ne condivide l’orientamento, come “la madre di tutte le battaglie”. E’ bene che se ne rendano conto anche quei “mondi cattolici”, movimenti ecclesiali, associazioni, centri di cultura, aggregazioni sociali che, per quanto privilegino la postura “pre-politica” e la “formazione delle coscienze”, in questa particolare contingenza, fin d’ora e nel lungo cammino che ci condurrà probabilmente ad un referendum confermativo, verranno inevitabilmente convocate ad una assunzione di responsabilità prettamente politica che sta nell’ ordine delle cose ed, in quanto tale, invoca anche momenti di mobilitazione organizzativa.
Secondo il legittimo pluralismo di opzione politica ormai consolidato nel mondo cattolico, vi saranno, con ogni probabilità, prese di posizione differenziate, ma, in ogni caso, nessuno potrà sottrarsi ad un puntuale, preciso, personale pronunciamento in merito.
Peraltro, in molti ambienti cattolici c’è tuttora grande diffidenza nei confronti della “politica” intesa quale militanza attiva, confronto laico e paritario, franco, leale, forte e schietto, a fronte di altre culture, di differenti visioni del mondo, come dovrebbe avvenire sul piano del discorso pubblico e della sua declinazione istituzionale.
Per quanto la politica – ma si tende a scordarlo , pur ricorrendovi con enfasi, eppure a fior di labbra – sia evocata, risalendo addirittura a Papa Ratti, secondo un’ espressione poi ripresa da Paolo VI, come la più alta forma di carità.
Un ferale sospetto, spesso addirittura un sottile, mal trattenuto disprezzo aleggia su chi pensi ad un diretto impegno di carattere “partitico”. Si teme sia sempre accompagnato da una sulfurea e diabolica ambizione di potere, quindi da un interesse personale e, per di più quasi necessariamente tale da compromettere la propria limpida, illibata coscienza. Quasi un giudizio di minorità morale nei confronti di chi, nella misura in cui pensi ad un tale impegno, sia per ciò stesso appesantito da una ambigua disponibilità al compromesso, da una cinica attitudine al baratto piuttosto che alla mediazione.
Di questo passo c’è il rischio che – sia pure con le migliori intenzioni, per una sorta di eterogenesi dei fini – i cattolici provvedano in proprio ad assecondare il disegno di quei mondi laicisti che sostengano che la fede religiosa possa essere sì ammessa e tollerata, purché si trattenga nel foro interiore della coscienza di ciascun fedele, assunto nella sua singolarità, e non pretenda di intervenire sul piano pubblico, ispirando azioni collettive da parte dei credenti.
Non andrebbe dimenticato come questo atteggiamento sia fondato sulla convinzione, spesso rivendicata in modo sprezzante, che la fede sia destituita da ogni capacità di concorso conoscitivo, ma si collochi, di fatto, agli antipodi della ragione, ascrivibile sostanzialmente al mito.
Domenico Galbiati