Ci sono almeno due argomenti, nell’intervista di Massimo D’Alema al “Corriere della Sera” dello scorso mercoledi’ che meritano di essere commentati. Se venissero da altra fonte si potrebbe far spallucce e derubricarli a ripetizione pedissequa e scontata di luoghi comuni, purtroppo passati nella vulgata corrente che perlomeno, pero’, per quanto per nulla condivisibili, lascerebbero il tempo che trovano.
Seconché riguardano, ambedue, aspetti rilevanti in funzione della fisionomia che immaginiamo debba assumere il nostro sistema politico ed istituzionale al fine di assicurare la tenuta democratica del nostro ordinamento, a fronte degli sviluppi delle dinamiche sociali e civili che gia’ osserviamo o che ci attendono al varco. Peraltro, se tesi del genere vengono sostenute da un esponente politico di primo piano, cui va sicuramente riconosciuta grande intelligenza politica, il rischio e’ che qualcuno ci creda.
Mi riferisco alla preferenza che D’Alema esprime nei confronti di un sistema elettorale maggioritario e dello schema bipolare che ne consegue, contro l’ipotesi di una legge proporzionale. Ed, altresì, all’ affermazione secondo cui, in definitiva, tra le deliberazioni degli organi statutari di un partito politico e le consultazioni della “piattaforma Rousseau”, non vi sarebbero differenze sostanziali.
Questo secondo argomento non e’ meno intrigante del primo e merita una trattazione apposita in altra occasione.
Invece, per quanto concerne il sistema bipolare, è lecito – almeno – coltivare il dubbio che vi sia stato un elementare rapporto di “causa ed effetto” tra la costrizione bipolare indotta dalle leggi variamente maggioritarie degli ultimi decenni e la devastazione che osserviamo oggi del nostro complessivo apparato politico-istituzionale?
Che un sistema elettorale maggioritario producendo, più o meno forzosamente, un sistema bipolare dia necessariamente luogo ad una alternanza fisiologia e, con ciò, ad una perfetta condizione di stabilità e, ad un tempo, di democrazia compiuta, può essere una affascinante tesi di scuola politologica, da sottoporre a qualche sofisticata ed astratta elaborazione accademica, ma la politica – quella vera, in carne ed ossa – è un’altra cosa.
Da noi, infatti, è successo esattamente il contrario ed, anzi, peggio. Invece che nel paradiso della liberal-democrazia ci siamo ritrovati nell’inferno della politica dell’odio.
C’è davvero ancora qualcuno che, nella nuova fase politica che si apre con il cosiddetto “governo giallo-rosso”, pensa di ravvisare l’occasione e l’opportunità di rilanciare una rinnovata edizione del “bipolarismo”, sia pure aggiornando il cast degli attori?
Tutt’al più lo possono pensare pezzi o, perfino, schegge di classe dirigente – di varia espressione culturale, come già avvenne a suo tempo – in sofferenza ed alla ricerca di un ruolo comunque garantito.
Infatti, almeno per taluni, il pregio del bipolarismo sta anche nel fatto che non si perde mai. Chi arriva secondo vince la palma dell’opposizione che poi, spesso, non e’ neanche male. Insomma, è un po’ un gioco dell’oca dove che avanzi di una o piu’ caselle o piuttosto torni a quella di partenza, in ogni caso resti in partita.
Ma la questione vera e’ piuttosto un’altra: l’Italia non è un’ entità bipolare.
E’, al contrario, un Paese articolato sotto ogni profilo: storico, culturale, sociale, artistico, geografico e naturale.
Un Paese straordinariamente ricco di storie, lingue e tradizioni locali, dove ogni borgo custodisce, nelle pietre del proprio centro storico, memorie ed identita’ antiche.
Un Paese così, in particolare quando si approda al momento della rappresentanza politica e dell’ assetto delle sue istituzioni democratiche, può, a meno di una colossale contraddizione, essere stipato a forza dentro un corsetto rigido che non lo contiene ed, anzi, diventa una camicia di forza paralizzante che gli toglie il respiro? E poi ci chiediamo perché tanta disaffezione, perché tanto astensionismo elettorale? Non a tutti piace scrivere sotto dettatura o concorrere ad un componimento già scritto.
E ci lamentiamo pure del fatto che ci sia chi sostiene che non ha piu’ senso parlare di “destra” o di “sinistra”?
Se “destra” e “sinistra” si giustificano a vicenda come termini necessari dell’ assetto bipolare, finisce che hanno già a sufficienza di che campare, senza bisogno di disturbare le ragioni di fondo o le rispettive idealita’, spallegiandosi a vicenda dentro uno schema formale in cui tutto si riduce a mero scontro di potere.
Da qui deriva, altresi, che, anziche’ competere al “centro”, come si attendevano tante anime belle, diventa molto più’ agevole ed elettoralmente gratificante coltivare, ciascuno, le proprie praterie estreme, a costo di lacerare il tessuto connettivo del Paese e slogarne le articolazioni.
Ne sa qualcosa il ceto medio?
C’è da augurarsi che le brevi e condivisibili espressioni che il programma di governo dedica alla legge elettorale siano correttamente tradotte, come parrebbe ovvio presupporre, in un nuovo sistema schiettamente proporzionale.
Domenico Galbiati