Un elemento che ha colpito molti in questi giorni è l’alto numero di giovani partecipanti al moto spontaneo di massa generato dalle vicende cui assistiamo nel vicino Oriente.
Recenti manifestazioni, come quelle organizzate dalle donne all’insegna del “se non ora, quando”, ed anche le prime discese in piazza per la Palestina, ci avevano fatto assistere alla partecipazione più di persone di mezza età o anziane. I giovani sembravano meno coinvolti. Evidentemente, il protrarsi delle drammatiche immagini, dei resoconti e delle testimonianze su ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania hanno colpito nel profondo. E un paragone i più anziani provano a ricercarlo solo con gli anni della guerra del Vietnam.
Ovvia la reazione ad una crudeltà che supera ogni immaginazione. Al senso di impotenza che esalta la nobile “rabbia” che emerge nell’assistere, da disarmati ed impotenti, ad uno scontro tra disuguali. E le immagini dei bambini e degli inermi colpiti con cattiveria – alimentando il sospetto che ciò possa essere il frutto di una precisa volontà – hanno fatto il resto. Nonostante i giornalisti e i commentatori provino a negare l’innegabile e a dipingere come “politica” – intesa ovviamente in senso negativo – una reazione che per prima cosa, invece, è umana.
Sbaglia in Italia chi non coglie questo. E sbagliano gli israeliani – e taluni ebrei – a far diventare tutto ciò antisemitismo. È un errore storico e di prospettiva che, semmai, alimenta quella mala pianta dell’odio etnico che persiste contro nipoti e pronipoti delle vittime della Shoa e di altre odiose forme di discriminazione. E sbaglia anche chi pensa di traslocare nelle urne un sentimento che, appunto, è soprattutto umano.
Non si tratta di un fenomeno solo italiano. In tutto l’Occidente, e persino in lande lontanissime da noi e dai nostri problemi, e sempre poco considerate, come nel caso del Nepal, ci dicono che è in atto un sobbollimento mondiale tra le nuove generazioni. Non saremo di nuovo al ’68 e neppure alle “primavere arabe” di fine 2010 ed inizi 2011, ma è certo che si è innescato un moto nuovo tra quei giovani che giustamente credono di essere portati a vivere un mondo che non vogliono. Molte le cause: le guerre, il ripetersi di crisi finanziarie ed economiche – sempre risolte a danno dei più deboli – le disuguaglianze economiche e sociali, il sentirsi sempre più emarginati e non considerati e, certo, non pienamente appagati -nonostante vi siano pienamente immersi, e forse proprio per questo – da quel mondo digitale di cui colgono per primi tutti le criticità e i rischi di una sudditanza e di un egualitarismo che è solo apparente.
E’ questa complessità che non autorizza a pensare di trovarci di fronte ad uno schierarsi politicamente. Come dimostra in Italia l’astensionismo – anche il loro – il giudizio di giovanissimi è giovani sulla politica, su tutta la politica, è impietoso.
Come dare loro torto. Tutto sembra congiurare contro le nuove generazioni. Ed anche i sindacati, forse tra i primi a percepire le correnti profonde che agitano questa parte della società, vengono avvertiti come quelli che nel corso degli ultimi decenni hanno finito per dedicarsi soprattutto ai già occupati. E i dati dell’Istat dicono che aumenta l’occupazione solo tra quelli che hanno più di 50 anni. In questo giudizio, allora, è inevitabile che siano accomunati a tutti i partiti che guardano ai più grandi serbatoi dei votanti in una società che invecchia sempre di più. E che non investendo in innovazione, seguendo vecchi modelli economici e fiscali, di fatto, lasciano ai più capaci ed ai più intraprendenti solo la via dell’emigrazione verso l’estero.
C’è un’ingessatura nella nostra società – incluso quei settori vitali come le università, la ricerca scientifica e tecnologica e le professioni – le cui negative conseguenze sono avvertite e subite soprattutto dai più giovani che, a differenza dei tempi del dopo ’68 non vedono più funzionare il cosiddetto “ascensore sociale”.
C’è da chiedersi quanto anche l’impostazione di quello che resta ancora un oggetto misterioso, cioè il Pnrr, non si rivelerà l’ulteriore occasione mancata. Se non, addirittura, una polpetta avvelenata per i giovani. Perché si troveranno caricati ancora più di debiti e senza la certezza di veder giungere l’avvio di piani di sviluppo davvero loro utili, così come alla intera società del domani.
I giovani, dunque, avvertono che non c’è una reale risposta alle loro attese. Vivono l’andamento delle cose del mondo come un qualcosa destinato a togliere loro sempre più la voce e la speranza.
Una grande sfida, dunque, per tutti. Anche per quella sinistra che li cita e li blandisce, ma fa fatica a riconoscere ed a superare le proprie responsabilità. Una sfida anche per chi vuole superare l’attuale quadro istituzionale e politico stretto nella morsa caratteristica del bipolarismo in cui siamo finiti costipati negli ultimi trent’anni.
Anche i popolari intenzionati ad avviare un processo di trasformazione hanno il problema di come entrare in sintonia con le forze vive, ma inespresse, della società e di cui le nuove generazioni coprono potenzialmente le aree più brillanti e volenterose. Diciamocelo francamente, pure le forze che vogliono il superamento dell’attuale quadro politico ponendosi in alternativa alla destra come alla sinistra hanno nei confronti dei giovani un problema di credibilità legato ai contenuti e al linguaggio e non riescono, pertanto, a coinvolgerli. Forse, neppure riescono a farsi ascoltare.
La grande tradizione di cultura politica che contraddistingue tante forze, gruppi ed associazioni -quelli che potrebbero dare vita davvero ad una grande novità nella politica italiana – non hanno ancora mostrato una capacità di ascolto e di interlocuzione adeguate. E di declinare a fronte della società dei nostri giorni – nei quali gli slogan sostituiscono le proposte programmatiche – la suggestione di vecchi e nuovi paradigmi attorno cui avviare un organico progetto improntato alla solidarietà e ad una diversa idea della partecipazione anche da parte delle nuove generazioni.
Giancarlo Infante