IL SOGNO DI DE GASPERI E L’AMARA REALTA’

De Gasperi muore a Borgo Valsugana, il 19 agosto 1954, una decina di giorni prima che l’Assemblea Nazionale francese voti, il successivo 30 agosto, contro la creazione della CED. Il progetto della Comunità Europea di Difesa era stato lanciato dal Presidente della ricostruzione morale e materiale dell’Italia e dal suo Ministro degli
Esteri, Carlo Sforza, fino dal 1950.

Immaginare la creazione di un esercito europeo comune a pochi, pochissimi anni dai momenti in cui le forze armate dei Paesi europei si erano dilaniate in una tragica guerra civile, richiedeva una grande audacia sul piano politico, una lucida visione strategica ed anche una forte tempra morale, la capacità di concepire un’ideale e, nel contempo, tenacemente tradurlo in un concreto progetto istituzionale.

De Gasperi concepiva la CED sì in funzione del suo compito proprio, cioè per dotare l’Europa di una autonomia militare difensiva – di cui tuttora, quasi settant’anni dopo, non disponiamo – ma soprattutto come strumento che necessariamente spingesse il vecchio continente verso una effettiva unità politica.

Gli ultimi tempi della vita di De Gasperi sono stati amareggiati da questa annunciata implosione di un progetto
che, in una prima fase, anche Parigi aveva caldeggiato. Da allora l’Europa ha privilegiato la strada dell’integrazione economica e mercantile che ha sostanzialmente disatteso o almeno gravemente allentato la tensione verso
il grande disegno dell’unità politica.

Ovviamente non si fa la storia con i “se” o con i “ma”, eppure a fronte dell’invasione russa dell’ Ucraina, è difficile resistere alla tentazione di chiedersi quale evoluzione avrebbe potuto avere l’ intero quadro europeo ed internazionale se le cose fossero andate come auspicava De Gasperi.

Oggi l’Europa è afona sul piano politico e, dunque, poco incidente sul piano diplomatico. Non a caso Macron e Scholz devono giocare ad una sorta di passa-parola attraverso Xi Jinping se vogliono che la loro voce ottenga audience a Mosca. C’è una evidente, grave sproporzione tra l’accumulo di storia e di cultura che grava sulle spalle del vecchio continente ed il peso, la scarsa autorevolezza che riesce ad esprimere sul piano delle relazioni internazionali. Del resto, non possiamo dimenticare che il secolo scorso – forse troppo frettolosamente chiamato “breve”, ma che, in realtà, inaspettatamente ha gettato i suoi fantasmi al di qua del vallo temporale del nuovo secolo, anzi del nuovo millennio – è stato funestato da quella che Churchill chiamava la seconda “guerra dei trent’anni”.

Due conflitti mondiali combattuti sul suolo europeo, dal 1915 al 1945, non potevano non lasciare il segno strisciante di una diffidenza, di una rivalità sottaciuta, trattenuta eppure un po’ endemica in tutto il continente. Non a caso due guerre, in particolare la seconda, combattute da europei in casa loro, ma delle quali sono venuti a capo solo grazie al massiccio intervento di quello che, dal punto di vista dell’appartenenza territoriale, potremmo chiamare un soggetto terzo. Anche oggi, in sostanza, un conflitto armato che fa strage di civili nel cuore dell’ Europa non può essere affrontato da un tavolo negoziale europeo.

E’ difficile immaginare la possibile evoluzione del conflitto in corso. Potrebbe, già in queste ore, essere affidata ad una sorta di inerzia degli eventi, cioè sostanzialmente posta fuori dal controllo attivo di entrambi i contendenti, sicuramente degli ucraini, ma anche degli stessi russi. Come se andasse impaludandosi, cosicché Putin potrebbe vincere la guerra e, ad un tempo, diventarne prigioniero. Come successe all’URSS in Afghanistan. In Ucraina siamo nel bel mezzo di un territorio che non è fatto, per gran parte della sua estensione, di asperità montane o deserti di pietra cosparsi di villaggi.  Siamo nel cuore pulsante di un territorio ad alta intensità abitativa, fortemente antropizzato, carico di una imponente memoria storica, che non ce la farebbe a sopportare il permanere, nel suo corpo vivo, di una ferita purulenta, senza che questa comprometta, infiltrandoli, i tessuti circostanti, fino a debilitare l’intero organismo.

Le truppe di Putin avanzano verso Kiev, ma è come se temessero che ogni passo avanti concorra a tagliare i ponti alle loro spalle, non, beninteso, dal punto di vista militare, bensì sotto il profilo strategico e politico. Non è escluso che, a fronte della resistenza ucraina, Putin possa trovarsi senza una percorribile via d’uscita, costretto ad una escalation che sa, peraltro, di non poter spingere oltre un certo limite e che abbia, cioè, una sua qualche “ratio” e non sia, invece, un nudo e crudo gesto di disperazione che il suo Paese pagherebbe in misura dagli aggrediti.

In ogni caso, godrebbe, almeno, del vantaggio di tenere sotto scacco l’ Europa, soffiando su un fuoco che la temperatura febbrile del continente dilaterebbe a dismisura, riproponendo faglie di frattura che dilaterebbero, in un percorso temporale impredicibile, vanificandolo nell’attesa il processo di unificazione.

Domenico Galbiati

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