Siamo così sicuri che tornare a parlare di riforma costituzionale, poteri del governo, autonomie, premierato e quant’altro si vorrebbe cambiare, risolverà i problemi della nostra democrazia in affanno?
Il nostro è un Paese senza politica e quando mancano le ragioni, anche poche, che potrebbero giustificarla è inutile sperare che cambiando le istituzioni si torni alla normalità di “una comune comprensione dell’interesse generale” (Moro).
La frattura è evidente, dall’uomo della strada in cerca di sicurezze alle classi dirigenti sempre più stupite dalla incompetenza diffusa. Lo omologa la quasi maggioranza dei cittadini che si rifiuta persino di andare a votare.
Eppure la politica ha concorso per lunghi anni a modernizzare il Paese, a garantire libertà e democrazia, a consentire che la cultura del lavoro e la capacità di fare impresa si esprimessero fino a riportarci tra le economie più avanzate, a fare emergere i mondi vitali nella società, a creare consuetudine nel dialogo tra le diverse ideologie, sentimenti, comunità e pluralità di interessi
I partiti politici avevano milioni di iscritti e l’astensione al voto era residuale. Anche la cultura, organica o meno, aveva diritto di cittadinanza.
Questa realtà è venuta largamente meno. I partiti non hanno saputo rigenerarsi quando c’erano da affrontare realtà nuove nello scenario internazionale ed essere più esigenti nella trasparenza dei loro mezzi di sussistenza.
L’azione del magistrato penale (ritenuta oggi sempre più discussa quanto ai mezzi utilizzati) ha fatto il resto, ed essendo risaputo che in politica il vuoto non esiste, è venuto alla ribalta ciò che con compiacente arroganza si autodefiniva “il nuovo”. E’ cominciata così un transizione infinita.
La Lega, che non è mai voluto avere a che fare con le idee; poi, il berlusconismo che non ha mai praticato la democrazia al proprio interno; la Margherita con le sue confusioni, poi ancora i Cinque Stelle che hanno fatto della improvvisazione e della diffusa incompetenza la loro bandiera.
Oggi gli scenari sembrano due. A destra un partito che dall’opposizione solitaria aveva cavalcato il populismo, lasciando intendere anche tentazioni sovraniste, e che giunto al potere cerca di affrontare con determinazione realtà complesse dove peraltro la grinta non basta. A sinistra, un partito estenuato (nove segretari in dodici anni) dal tentativo di costruire una identità tra post comunisti e parte della sinistra dc. Tentativo fino ad oggi non riuscito per ragioni che sarebbe lungo descrivere
Fuori sono rimasti sia il socialismo craxiano che le residue memorie repubblicana e liberale, ma soprattutto la diaspora della grande tradizione storica dei cattolici democratici che pure al Paese avevano dato molto. Una tradizione che pure è arricchita dalla vitalità dei suoi mondi e dal pensiero sociale in costante rinnovamento della cristianità.
Può allora la riforma delle istituzioni riportare la politica che non c’è? Sembrerebbe inverosimile. Ma allora quando si potrà dire che le istituzioni rinnovate funzionano? Ancora Moro: quando saranno in grado di garantire “che i giovani possano essere giovani, le donne donne nella purezza non deformata e costretta della loro natura; il lavoratori, cittadini in assoluto al più alto grado di dignità”. Ecco quando la politica tornerà.
Guido Puccio