Insieme nasce  senza leader. Ma non è che ce lo siamo persi per strada. E’ che non lo vogliamo proprio. Abbiamo deciso di mostrare quanto si possa cambiare registro con la politica degli ultimi anni, tutta costretta a ruotare quasi esclusivamente attorno alla voce e alle facce dei cosiddetti leader, del capo, del “padrone” del partito.

Insieme, invece, sceglie di darsi una guida condivisa e inclusiva. Punta più sull’autorevolezza collettiva che sull’autorità ”dell’uomo solo al comando”.

Come darci torto dopo la constatazione che questo modo di concepire la politica è direttamente connesso con un doppio decennio e mezzo nel corso del quale i partiti sono diventati comitati d’affari, ectoplasmi, organizzazioni solamente elettorali, sommatorie di “rass locali, ambizioni e interessi carenti di ogni visione prospettica e progettuale.

Una piccola digressione. Leaderhip è una di quelle parole inglesi che, come capita spesso, sono utilizzate da noi italiani senza penetrarne la valenza semantica più profonda. Finiamo per dire una cosa diversa, in taluni casi molto diversa, rispetto a quello che significa nella lingua della perfida Albione. Da noi, il leader è visto come il capo. Colui che ha il potere assoluto nel partito o al governo. In inglese questo è il “boss”. La leadership non è l’arte de comando, ma quella della motivazione del gruppo di appartenenza, spinto ad agire sollecitando, più che comandando, in modo da raggiungere il comune obiettivo.

E’ vero che la storia italiana è stata a lungo una storia di principi e di re, piuttosto che di popoli. E’ vero che con il fascismo si è dato vita a quel fenomeno del novecento, poi esportato in altri paesi , in virtù del quale dal balcone si parla direttamente alle folle saltando a piè pari tutti i processi democratici: ciò che porta  George Mosse a cogliere nel rapporto tra capo e masse un segno distintivo della politica del novecento.

Ci sono, insomma, delle “scorie” nella profondità del nostro animo collettivo che, purtroppo, emergono soprattutto nei momenti più acuti delle crisi affrontate dal Paese. Siccome siamo permanentemente  in una vera e propria  crisi democratica e di rappresentanza non possiamo contare sui tempi lunghi delle democrazie anglosassoni che saranno noiose quanto vogliamo, ma che sembrano aver espunto certi fenomeni di degenerazione populistica che, paradossalmente, hanno attecchito nel passato nelle latine Italia, Spagna e Portogallo e nella più severa Germania. Queste scorie favoriscono la ricerca e l’imporsi della figura del leader che ci ostiniamo a non chiamare “boss”.

Perché propongo questa correzione lessicale. Perché ad esclusione del primo Berlusconi, quello che mise assieme pezzi di società e di interessi legate ad entità geografiche ben precise, è stato poi tutto un susseguirsi di “capi” che, visto come è finita la loro storia è meglio definire “capetti”.  Silvio Berlusconi capì, molto meglio di tanti strateghi degli allora ancora esistenti  partiti popolari, che con il sistema maggioritario all’italiana sarebbe cambiato tutto. Non so se il capo di Forza Italia avesse studiato la stagione giolittiana e ne avesse tratto gli insegnamenti adeguati a capire come, con un po’ di determinazione, fosse possibile mettere in piedi un sistema che sostituiva i prefetti con gli uomini di Publitalia e i regi decreti con le reti tv di quella che allora si chiamava Fininvest. C’è da riconoscere, comunque, che il primo Berlusconi assurse al rango di leader perché fu capace d’interpretare un sistema d’interessi reali. Riuscì a rappresentare, così, anche un elemento di mediazione, al punto tale da mettere e da tenere a lungo insieme Gianfranco Fini e Umberto Bossi che si riferivano a mondi del tutto distanti, se non addirittura contrapposti tra di loro.

I leader arrivati dopo il primo Berlusconi, e quindi anche il secondo e il terzo Berlusconi, non hanno avuto neppure queste capacità, ma si sono limitati, con una media ciascuno di due anni di esistenza, tanto sono durati Matteo Renzi e Luigi Di Maio, a comandare e a provare a “imporre” le loro carte, salvo scoprire di non riuscire a battere il banco rappresentato dal popolo italiano e dal sistema democratico che, in ogni caso ha resistito loro. Matteo Salvini si è azzoppato da solo dopo neppure un anno di governo e ora gli resta solamente da sparare le solite cartucce delle centinaia di migranti che continuano a toccare la costa italiana. Il resto è vuoto pneumatico. Da quando la spinta propulsiva di Salvini si è esaurita la forza della Lega si è ridimensionata.

Noi abbiamo deciso di non fare gli stessi errori degli altri e di mettere al lavoro sia nella dimensione nazionale, sia in quella regionale e locale un gruppo di amiche e di amici che avranno il compito di coordinare e di mettersi al servizio e non di dirigere e di comandare. C’è in questo una completa diversa motivazione politica: noi abbiamo  l’ambizione di dare vita a un partito nazionale e popolare, indipendentemente dalla quantità dei voti che esso può raccogliere. Per fare ciò non si può che partire dai territori da cui deve emergere tanto patrimonio umano e professionale inespresso al quale si propone di rappresentarsi e non d’inginocchiarsi supino dinanzi a un “capo” che molto spesso è solo interessato a se stesso e al “cerchio magico” che lo circonda.

Giancarlo Infante

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