E se la forza del “populismo” altro non fosse se non il fatto di rappresentare, nella cosiddetta “societa’ liquida”, l’unica forma di surrogato oggi accessibile, per quanto degradata e sconnessa, del “popolarismo”?
Da dove deriva, che cosa sostiene la grande capacita’ di attrarre consenso del cosiddetto “sovranismo”?
Sono domande che dobbiamo porci.
Bisogna sempre prendere sul serio le posizioni del proprio interlocutore, entrare nell’intreccio concettuale che lo porta a determinate conclusioni, cercare di comprendere i profili emozionali che, più o meno surrettiziamente, entrano nelle pieghe del suo ragionamento e vi apportano spesso elementi irrazionali.
Sono così si può entrare nella guardia del proprio avversario.
Se, al contrario, ci si affida alle impressioni di superficie, si rischia di soffocare le proprie pur valide ragioni nella stretta del pre-giudizio ( nel senso letterale del termine); a quel punto ci si accontenta dell’invettiva; da lì’ si scivola, senza volerlo, in quel tanto di supponenza che approda, a sua volta, all’intolleranza; magari sdegnata e “virtuosa”, ma pur sempre tale.
Insomma dobbiamo capire; capire meglio e di più, se non vogliamo noi stessi regalare a Salvini masse di elettori e ritrovarci del tutto incapaci di offrire loro percorsi alternativi.
A meno che li consideriamo persi una volta per tutte e non è davvero il caso, anche considerando la loro cospicua provenienza dal mondo cattolico.
“Populismo “ e “popolarismo”, dunque.
C’è solo, come a molti piacerebbe o riesce immediatamente facile credere, una distanza abissale ed incolmabile, addirittura morale, ancor prima che culturale e politica?
Oppure c’è qualche nesso che merita di essere esplorato?
Magari, partendo dalla precisa consapevolezza del grande valore che attribuiamo al “popolarismo” ed all’insieme delle sue espressioni sociali, culturali e politiche, senonche’ oggi
questo avviene in un contesto in cui non è poi così facile ritenere che la nozione di “popolo” sia del tutto evidente e scontata.
Per “popolo” possiamo intendere, in ultima analisi, quell’insieme di fattori che, in maniera strutturata ed organica, rispondono, nelle forme di un comune indirizzo valoriale, alla vocazione elementare alla socialita’, alla condivisione, al reciproco riconoscimento, alla comune appartenenza cui tutti siamo originariamente orientati.
Alla formazione del “popolo” concorrono storia, tradizioni, culture e solidarietà locali, ma anche
memorie, sentimenti, affetti, valori nel senso proprio del termine – ciò per cui vale la pena vivere o morire – che vengono trasmessi da generazione a generazione e , dunque, verificati alla prova del tempo, stratificati nelle strutture sociali e civili di una comunità.
Il “popolo” – per quanto entita’ mai univoca ed uniforme, anzi formato da una pluralita’ di gruppi, di insiemi differenziati, di categorie, di classi, di sistemi e sotto- sistemi; addirittura adatto ad ospitare posizioni antogoniste o antitetiche perfino sul piano politico, eppure capaci di sentirsi parti di un tutto – rappresenta una dimensione irrinunciabile all’identita’ personale di ciascuno, nella misura in cui è lo spazio in cui si stempera e si scioglie quel solipsismo autoreferenziale che la cultura dell’individualismo esasperato ha abbondantemente seminato nella nostra cultura degli ultimi decenni.
Insomma, per darci ragione di quel che verifichiamo oggi, bisogna risalire piu’ indietro nel tempo ed ammettere che non tutto è opera di Salvini che, anzi, per molti aspetti, raccoglie quel che altri hanno seminato.
Nel contesto civile dei nostri giorni, attraversato da vistose smagliature, atomizzato da una prolungata consuetudine alla cultura dell’individualismo, povero in quanto a capacità di mediazione e di sintesi, sovraccarico di sollecitazioni difficilmente componibili, stante il fatto che la coazione ad aggregarsi e’ comunque connaturata ed invincibile, è davvero sorprendente il fatto che sia istintivamente più immediato e facile farlo, in modo quasi brutale e primitivo, attorno a sentimenti negativi di avversione, di ostilita’, di timore e di diffidenza, piuttosto che affidarsi a ragioni di tolleranza, fiducia e solidarieta’?
Certo, e’ come se stessimo subendo una torsione regressiva ed un oggettivo appanamento della nostra stessa umanita’.
Ma si tratta di un percorso perverso su cui non ci siamo incamminati ieri l’altro.
Siamo destinati a convivere nel contesto sbrindellato di una massa frastagliata e rissosa oppure possiamo ricomporre e ridisegnare la fisionomia di un “popolo”, magari investendo fortemente su quelle “politiche sociali” che, intanto, corrispondono alla stessa “questione democratica” e soprattutto sono un potente fattore di coesione sociale.
Oggi, in buona sostanza, il “popolo” non è semplicemente dato, secondo un evidenza immediata che si deve solo constatare.
Va, per tanti aspetti, costruito e ricostruito perché torni ad essere la casa comune in cui tutte le dialettiche, i confronti e gli scontri sono possibili e pur sempre costruttivi.
Non si tratta, certo, di pensare ad una societa’ “organica” d’altri tempi; tanto meno di negare la vitalità e la ricchezza del pluralismo che, con tutte le sue voci, deve concorrere al “discorso pubblico”.
Insomma, attorno al “popolo” bisogna lavorarci con gli strumenti dell’ educazione, della cultura e, necessariamente, della stessa politica che deve saper individuare e proporre quei nuclei di aggregazione attorno a cui la società “liquefatta” dell’individualismo, via via torni a processi di sensata condensazione.
E’ superfluo dire come l’ispirazione cristiana sia del tutto indispensabile per attivare e sostenere un processo che nella persona come “soggetto di relazioni” trova il suo asse portante.
Domenico Galbiati

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