Dunque la Cina si propone come mediatore nel conflitto ucraino. Cioè si mette messa al centro del ring. O, almeno, millanta quel molto di autorevolezza che, appunto, le consentirebbe di osare un passo talmente impegnativo. E, per di più, presuntuoso, se si considerano determinati precedenti storici, da Piazza Tienanmen, al Tibet e a Hong Kong, che la rendono del tutto inattendibile nel ruolo di presunto pacificatore.

La ”nomenclatura” cinese non condanna Putin, anzi si prende il lusso di consigliargli prudenza. Come se giocassero al “poliziotto buono” e al “poliziotto cattivo”. Mosca ha alzato la palla, Pechino la schiaccia a terra? L’imperturbabile serenità dell’ “Impero celeste” – la sua storia secolare, anzi millenaria, travalicando anche Mao, il comunismo, la “rivoluzione culturale”, la “banda dei quattro” e quant’ altro – è tuttora una fonte ricca di suggestione ed ispira ancora le mosse cinesi.

Kissinger nei primi capitoli del libro, ormai datato, che dedica alla Cina e con il quale ripercorre il processo che, ai tempi della presidenza Nixon, ha guidato per una ripresa di rapporti tra le due potenze, documenta come i cinesi, dotati di una sottile ed efficacissima attitudine diplomatica, abbiano affinato la capacità di vincere le guerre senza sparare un sol colpo di fucile. Ci sono riusciti addirittura quando i fucili neppure li avevano e le potenze occidentali si avvicinavano ai loro porti con le cannoniere. Semplicemente, facendo premio sull’immensa vastità territoriale di cui dispongono, sono stati abilissimi nel porre i loro nemici nella condizione di doversi elidere gli uni con gli altri. E tale attitudine l’hanno conservata, e via via accresciuta, passando da una dinastia imperiale all’altra, nel quadro di tensioni interne e conflitti enormi tra clan ed etnie, che pure non impedivano di mantenere ferma l’ impronta originaria di una linea di pensiero e di un orientamento di lungo termine che devono molto a Confucio.

Non a caso – lo ricorda ancora Kissinger – gli imperatori cinesi non hanno mai consentito che ambasciatori di altri Paesi risiedessero permanentemente a Pechino. Avrebbe significato riconoscere l’esistenza di entità nazionali, formalmente costituite, convinte di poter attestare una loro identità, laddove, secondo la concezione cinese della storia, ogni altro popolo, prima o poi, in virtù di una superiore ragione di civiltà, non avrebbe altra alternativa che prostrarsi al trono del celeste imperatore.

Siamo in presenza , si potrebbe dire, di un imperialismo, anzitutto, mentale e culturale, che sembra vantare una sorta di superiorità pregiudiziale, non di carattere razzista, ma che allude quasi ad un dato antropologico. Il comunismo maoista, ben lontano dal contrastare una tale concezione l’ ha calzata perfettamente, come un guanto, perfino nei confronti della casa madre della dottrina marxista-leninista.

Insomma, la Cina storicamente si concepisce come un mondo differente, che guarda al mondo “altro” da sé con un atteggiamento, si potrebbe dire, di disincanto altezzoso, se non benevolmente sussiegoso ed irridente. Trasmettendo un tale atteggiamento ai nuovi imperatori che gestiscono un innaturale e scivoloso connubio tra comunismo e capitalismo che può reggere solo a condizione di prescindere programmaticamente, pregiudizialmente, necessariamente da ogni forma di democrazia.

Per la Cina la democrazia non è un frutto ancora immaturo, non ancora pronto per essere colto. Per la Cina la democrazia è veleno. E si può forse perfino comprendere che sia così per un potere che deve tenere insieme un territorio enorme in cui vivono molte differenti etnie, attraverso paradigmi di convivenza civile in cui stili di vita avanzati sono percorsi da modelli atavici, secondo modalità che spaziano dall’ immensa conurbazione al villaggio sperduto nella steppa. C’è in gioco un dato strutturale che condiziona, frena ed inceppa anche ogni eventuale pensabile – ove pur vi fosse – apertura ad un diverso regime. Ci vorrebbe una sofisticatissima ingegneria istituzionale per governare un tale impero secondo un ordinamento di poteri locali coordinati, anziché ricorrere ad un centralismo feroce mediato fino alle estreme periferie dai “mandarini” di sempre. Insomma, se la Cina, come taluni ritengono, può fare paura non è per la vastità delle sue risorse e delle sue potenzialità, ma piuttosto – senza cadere in un gioco di parole – per questa, se così si può dire, altera “alterità” che ha di sé stessa.

Sarà vera gloria? E fin quando? Difficile dirlo. E’ successo più volte nella storia che giganti avessero piedi d’argilla, cosicché, ad un certo punto, quasi senza preavviso, rovinassero su sé stessi, sacrificati sull’altare della loro stessa magnificenza. Se mai un giorno succedesse alla Cina, la dimensione e’ tale che dal tonfo si innalzerebbe uno tsunami di dimensioni ciclopiche.

Anche per la Cina l’Europa è una pietra di inciampo da rimuovere o da comprare, che forse è la strada più spiccia e più indolore.

Domenico Galbiati

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