Nel suo bell’articolo – anzi, ben più di un articolo -che “Politica Insieme” ha pubblicato lo scorso lunedì (CLICCA QUI), Stefano Zamagni sostiene che “l’abbandono della domanda di trascendenza” e “l’immanenza mercantile” rappresentano il cuore della secolarizzazione.
Si tratta di un’affermazione importante, anche per la politica. Coglie, infatti, la radice comune – la più rilevante, per quanto non ce ne rendiamo facilmente conto, anzi, a prima vista, ci sembra una stranezza pensarlo – da cui prendono le mosse le crisi che, su più versanti, affliggono il nostro tempo.
Abbiamo smarrito la dimensione della “trascendenza” e, con la trascendenza, abbiamo smarrito la “creatività”, espressione originaria, spontanea ed incondizionata della libertà interiore, e con questa, l’esperienza della verità compiuta, cioè, come dice
Sant’Agostino, la “gioia”.
Abbiamo subito – o piuttosto ci siamo inferti – una mutilazione grave nello spazio più riposto della nostra coscienza. La ferita sanguina ancora e non cesserà
di sanguinare finché non avremo compreso dove sia la fonte dell’emorragia.
La trascendenza che, nell’opinione corrente, per lo più, associamo ad una concezione religiosa della vita, in effetti è un tratto interiore, costitutivo dell’essenza umana, forse il più intimo e profondo, che appartiene a tutti, qualunque sia la fede o la credenza, la postura credente oppure scettica o indifferente, agnostico, oppure, atea che ciascuno assume.
In ogni uomo, lo sappia e lo riconosca o meno, c’è una inesausta domanda di infinito, cui tendiamo asintoticamente, cioè con una ricerca incessante, sia pure senza mettere l’argomento scientemente a tema. Una ricerca che ci spinge verso un costante e progressivo avvicinamento ad un approdo che, peraltro, qui ed ora, non ci è dato raggiungere.
Siamo fatti per dare alle cose un nome, cioè un senso compiuto, scoprendolo oppure attribuendolo, in ogni caso attestandolo. Siamo fatti per scorgere in ogni gesto, oltre l’ “intenzionalità” che lo muove, anche un versante che potremmo chiamare “ulteriorita’”: cioè, un imperativo o almeno un invito a quell’ “andare oltre”, che rappresenta la nostra cifra ineludibile. Vuol dire ricercare e scoprire negli eventi della vita e della storia un significato, una promessa o una speranza che non si esauriscano nella cruda attualità delle cose, ma sempre le superino per accedere o almeno alludere al loro significato simbolico.
Gli “alienati” – i cosiddetti “malati di mente” – hanno molto da insegnarci e ci dicono come, per noi, sia lecito perfino fare a meno di un uso corretto della ragione, adottando una logica simmetrica del tutto differente da quella di uso comune di cui noi quotidianamente ci avvaliamo, ma non sia, invece, mai possibile rinunciare all’evidenza di un senso delle cose del mondo e della nostra vita interiore, a costo di cercarlo a tentoni nella foschia o nella nebbia o nel frastuono di un delirio.
È importante e necessario chiederci perché non siamo più in grado di riconoscerci in questa disposizione straordinaria che ci preme a muovere al di là della nostra pena quotidiana, come se solo questa transizione ci potesse accompagnare in un “altrove”, in uno spazio dove possiamo finalmente davvero incontrare noi stessi. È successo anche per la perdita del senso religioso della vita, ma non è la ragione principale. O meglio, questa si correla e si confonde con un altro versante.
L’ “antropocentrismo”, nato nel Rinascimento come felice, lucida, crescente consapevolezza del valore di tutto ciò che appartiene al nostro essere “umani”, c’è, via via, sfuggito di mano e si è avvitato in un sentimento di auto-sufficienza, anzi in una pretesa di auto-fondazione.
La vita ha cessato di essere sentita come un dono, ma piuttosto percepita come un possesso geloso ed esclusivo di cui a nessuno si debba dar conto, se non al proprio desiderio.
Abbiamo coltivato la fede in un progresso inarrestabile, “necessario”, cioè inscritto, di per sé, nell’ordine naturale delle cose e, soprattutto, automatico ed illimitato. Senonché successo che, inoltrandoci in un tale percorso, abbiamo, a tratti, vissuto un delirio di onnipotenza e perso la percezione e la coscienza del “limite” che ci fa umani . Senonche, senza confini, nessun limite, per definizione, non si può “andare oltre”. Piuttosto ci si muove in una landa vuota e sterminata, in un limbo sconfinato insipido
ed incolore che non suggerisce una direzione di marcia, per cui ci si avvita su di sé.
Ci siamo chiusi nel bozzolo dell’ “immanente”, ragione per cui la nostra stessa voce ci torna di rimbalzo e rischia di diventare rumore assordante.
Peraltro, smarrita la dimensione della trascendenza che strutturalmente ci appartiene, talmente essenziale e radicata da non poterne fare a meno, per forza di cose siamo indotti a costruirne dei surrogata. Cerchiamo, ma vanamente, si potrebbe dire, di “immanentizzarla”, cioè di catturarla, domarla, piegarla e pigiarla in un orizzonte chiuso che, in nessun modo, può con tenerla. In modo particolare, il “potenziamento”, il “post- umano”, a maggior ragione il “trans-umano”, fratello maggiore dei primi due e “vitello d’oro” dei giorni nostri, ma anche altri fenomeni, ad esempio, molte forme del cosiddetto “disagio” delle giovani generazioni oppure, più banalmente, la saga dei consumi, rientrano in questo orizzonte chiuso.
Va preso atto come sia impossibile riportare forzosamente dentro, dalla finestra, ciò che platealmente abbiamo espulso dalla porta. E di questa impossibilità paghiamo il duro prezzo.
Domenico Galbiati