C’è stato un tempo in cui le famiglie italiane hanno letteralmente resuscitato, moralmente e materialmente, il nostro Paese. Hanno tradotto sul piano della vita pubblica quella forza di coesione e di solidarietà, i sentimenti di fiducia, la ricerca di un domani migliore, le attese e le speranze, alimentate e sostenute, giorno per giorno, dal vincolo affettivo che ne orientava la vita.
C’è stato un tempo, ormai lontano, in cui gli italiani avevano ancora degli ideali. E gli ideali erano che i figli potessero studiare e, nel contempo, il frigorifero e la 600, i soldi da mettere da parte per costruire la casa ai figli, ma anche il televisore e le prime vacanze al mare. Non si trattava banalmente di “consumi”, come li intendiamo oggi. Si trattava di “beni”. Non un che di transeunte che si esauriva, si “consumava”, appunto, nell’istantaneità dell’ uso cui era destinato, ma cose il cui valore era definito dalla loro durata, dalla persistenza nel tempo, dal traguardo di lungo termine cui erano destinate, da una generazione all’ altra. “Beni” vissuti come un atto di fede nella vita, un investimento di speranza nelle generazioni a seguire. Il trascorrere del tempo, anziché eroderli e comprometterne il valore, lo incrementava.
La vita, per quanto fosse sacrificata, era ricca di senso. Ogni gesto era carico di futuro. Non si esauriva nell’atto del suo porsi immediato, ma andava oltre, trascendeva il contingente, si proiettava in un’altra dimensione. E questa non era un orizzonte lontano, incerto e sfuocato, bensì l’ impalcatura che, intrinseca ad ogni atto, lo riempiva di valore, lo rendeva coerente con gli altri momenti della vita, cioé le dava “consistenza”. La dimensione della “trascendenza” aveva sì a che vedere con una concezione religiosa della vita, ma andava oltre ed investiva tutte le fedi e tutte le ideologie.
Era il tempo della cosiddetta famiglia tradizionale – “patriarcale” come si preferisce chiamarla oggi ? – fondata su affetti sicuri, passati alla prova di una vita dura, severa, costruita, ben più di quanto oggi non si sia disposti a riconoscere, sul rispetto. Erano famiglie spoglie di sentimentalismo, ricche di sentimenti, nelle quali il rigore
e l’affetto andavano di pari passo e spesso il rigore era l’espressione compiuta dell’affetto. I genitori sapevano di dover attrezzare i figli per una vita che speravano migliore della loro, ma non meno impegnata ed altrettanto sobria.
La sobrietà era spesso una condizione obbligata, ma, nel contempo, anche una scelta, uno stile di vita assunto consapevolmente. Ed erano, anzitutto, le madri ad interpretare e trasmette un codice di rigore e di responsabilità.
Era la stagione in cui il “popolo” – milioni di famiglie di quelli di destra e di quelli di sinistra, dei cattolici e dei non credenti, dei ceti meno abbienti e di quelli benestanti – ha vissuto la sua piena manifestazione. Ed ha mostrato quella dimensione di “coralità”, di appartenenza ad un orizzonte comune, pur nella pluralità delle opzioni culturali e politiche, che rappresenta il momento eminente della sua forza. Oggi, al contrario, dobbiamo constatare – ed, in fondo, non c’è da sorprendersi – come la famiglia sia diventata problematica. Appesantita e compromessa soprattutto da una pesante fragilità affettiva. A sua volta, espressione di identità personali precarie, faticose da raggiungere e da custodire. Ed è qui, con ogni probabilità, il punto dolente da approfondire: in quella dimensione esistenziale sicuramente connessa alle trasformazioni culturali del nostro tempo, ma riconosce una radice interiore anche più profonda. Soprattutto i più giovani soffrono la fatica di portare a sintesi le sollecitazioni pervasive che li bersagliano da ogni dove.
Tuttora il compito della famiglia, tradizionale o meno che sia, è, ad ogni modo, insostituibile. Deve, infatti, anzitutto, formare coscienze critiche, persone libere, interiormente libere, consapevoli di loro stesse, delle proprie potenzialità e soprattutto dei propri limiti, capaci di autonomia senza cadere nel circuito perverso dell’autoreferenzialità.
Domenico Galbiati