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La fatica della democrazia e il prezzo della libertà – di Domenico Galbiati

Il crollo della partecipazione al voto – in Lombardia e Lazio, due Regioni di primo piano – segnala una condizione che non può essere affrontata, né qui né altrove, con fervorini e perorazioni scontate, dirette a sollecitare – ….la prossimo volta…. – la responsabilità degli elettori. Né bastano giaculatorie che, imputando alle forze politiche le loro colpe, vorrebbero, in una qualche misura, esorcizzarle. Assolvendo, in ogni caso, la società civile e le sue mille articolazioni che sarebbero proditoriamente vessate dai partiti e dunque, per definizione, innocenti, laddove la storia insegna che ogni qual volta la democrazia langue, c’è pur sempre il concorso di chi, persone o gruppi sociali, si rassegna ad un ruolo subalterno ed assume una postura comoda e passiva, di fatto connivente e complice.

Il fenomeno dell’ astensionismo, a questo punto, denuncia, in sostanza, una crisi epocale del nostro ordinamento e va, dunque, affrontato entro una visione ampia della possibile evoluzione del nostro sistema politico-istituzionale.

La corrosione progressiva delle percentuali di partecipazione al voto segnala processi di sfarinamento, come se la democrazia, piuttosto che essere soprattutto ferita da un attacco violento ed esogeno, si svuotasse dal di dentro. Per una sorta di inattitudine strutturale maturata nel tempo della secolarizzazione e subentrata alla rarefazione del vincolo sociale, cosicché, fatte salve le apparenze, dietro la facciata resti poco o nulla. Allude ad uno spegnimento progressivo, lento eppure ineluttabile, come succede alla fiamma di una candela che, posta sotto una campana di vetro, impallidisce e trema fino alla consumazione dell’ultima molecola di ossigeno. Quasi che la democrazia, la stessa libertà, la personale autonomia di giudizio vengano a noia, oberate da una fatica cognitiva, psicologica ed anche di ordine morale, il cui prezzo non vale la candela a fronte di un voto che appare inutile, attesa l’inefficacia della politica, per forza di cose obbligato o dall’ una o dall’altra parte, confinato nel limbo del cosiddetto “voto utile”, dato a dispetto, funzionale ad una contrapposizione spinta fino alla reciproca delegittimazioni delle parti.

L’inaridirsi del discorso pubblico e della politica determina il progressivo “default” della sovranità popolare e genera un vuoto, che, come tale, in natura non può esistere e quindi, quasi vi fossero attratti ex-vacuum, viene colonizzato, stabilmente occupato da poteri “altri” – anzitutto la comunicazione, la tecnica, la finanza ed il mercato – accomunati da una sostanziale indifferenza, anzi insofferenza, ostilità, nei confronti di ogni criterio democratico, inclini piuttosto ad adottare automatismi che oggi, a maggior ragione, vengono codificati nella forma degli algoritmi. E’ una condizione sulla quale, in modo particolare da credenti, dobbiamo riflettere a fondo.

Le possibili risposte – a grandi linee, ma dovremo tornarci sopra – si declinano secondo due possibili opzione: una illusoria centralizzazione, personalizzazione dell’ assetto istituzionale del potere che, lasciata alla sua china, conduce al “culto della personalità” ed, al contrario, una più ricca valorizzazione della democrazia parlamentare e della rappresentanza, cui dobbiamo lavorare.

A mio personale avviso, sicuro di interpretare il pensiero ed il sentimento di molti amici, per INSIEME vale solo la seconda.

Domenico Galbiati

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