E’ difficile sottrarsi all’impressione che, giorno per giorno, il nostro sistema politico-istituzionale si stia decomponendo.
Il fulcro della necrosi è nel Movimento 5 Stelle. La colliquazione della sua struttura diffonde sostanze tossiche e corrosive che pervadono anche i tessuti circostanti e li paralizza. Il PD e’ catatonico ed il governo boccheggia. Se la gode Salvini, eppure fors’ anche nella Lega qualche spirito più avvertito cerca un certo riposizionamento, se non altro meno truce, perché sa che se viene giù l’intero castello di carte, anche il bastione leghista ne esce squassato. A dispetto dei sondaggi.
Si può vincere la corsa nella splendida solitudine e nel deserto delle macerie altrui e poi morire assetati. Del resto, nelle società complesse e soprattutto in un regime di globalizzazione che impone connessioni sempre più stringenti tra un Paese e l’altro, in barba alle chiacchere sovraniste, la funzione di governo, anche interna ai singoli Stati nazionali, non può più prescindere da un bilanciamento dialettico tra maggioranza ed opposizioni. In un certo senso da una sostanziale corresponsabilità sia in termini di reciproca legittimazione, sia di comune attenzione alle realtà civiche ed a quei corpi intermedi che comunque non sempre sono aggirabili dal Palazzo complessivamente inteso.
Non a caso, Salvini è caduto quando ha dovuto cambiar passo e, nel colmo dell’estate, in vista dell’autunno della legge finanziaria, dovendo passare dal passo sovranista e baldanzoso della campagna elettorale a quello più calibrato e ritmico della funzione di governo, ha finito per incespicare nei suoi stessi piedi.
Un giorno o l’altro dovremo chiederci cosa significhi davvero essere “leader”. Una patente che una volta costava il sudore di sette camicie ed oggi viene elargita con una generosità forse eccessiva. E’ davvero leader chi balla per una stagione intera la stessa musica e quando la suonata cambia non sa fare altro che dribblare se stesso?
Ad ogni modo, se il PD esistesse o almeno avesse gli anticorpi appropriati, in una situazione così stremata, troverebbe la forza di rovesciare una difficoltà incombente e senza apparente via d’uscita in una opportunità.
Potrebbe alzare la bandiera di una riscossa morale e civile, sfidando con coraggio il vento avverso e, con un atto di fiducia nell’intelligenza del Paese, chiedere, anzitutto – dopo aver concorso per decenni a sequestrarne la libera espressione elettorale – che finalmente l’Italia venga restituita agli italiani grazie ad una legge elettorale proporzionale.
Il PD non ce la fa, però, e non a caso sembra chiudersi a riccio, ancora una volta, nel bipolarismo e relativa vocazione maggioritaria. Che e’ come suicidarsi dando capocciate nel muro. Una forma come l’altra di eutanasia, ma dolorosa.
Quando il paziente è particolarmente fragile e stremato, perfino una terapia drastica ed aggressiva potrebbe ucciderlo.
Serve un approccio dolce e progressivo che, anzitutto, risvegli quel tanto di capacità reattiva di un organismo debilitato, che offra alle terapie un possibile punto d’attacco. Ma non si vede, nel nostro panorama politico, chi possa farsi carico di una tale funzione.
Siamo invasi, piuttosto che da clinici avveduti, da sciamani e stregoni che inanellano, rivestiti di piumaggi colorati, le loro smodate danze rituali attorno al malato terminale che, ancor prima di soccombere alla malattia, rischia di morire di spavento.
Ed è qui che dobbiamo riscoprire la funzione virtuosa della “moderazione”. Non intesa come una sorta di inerzia mortifera ed inconcludente, un traccheggiare vano ed incerto che tradisca l’inettitudine a decidere, bensì capacità di creare sintonia, di aggiustare tempi e modi secondo cui accompagnare lo sviluppo e l’evoluzione positiva di processi orientati al risanamento di situazioni compromesse.
Insomma, dobbiamo scoprire che oggi il nuovo nome della moderazione dev’essere la “generativita’” della politica.
La sua capacità, cioè, di dare sì risposte, ma anche e soprattutto di sollecitare energie che autonomamente concorrano a creare soluzioni.
E’ la nostra cultura politica che può, più e meglio di altre, prendersi in carico questa rivoluzione concettuale.
Almeno due indirizzi vanno, intanto, chiariti.
Abbiamo bisogno di una Politica che sappia ascoltare, aderisca alle mille pieghe di realtà difficili senza la pretesa di dominarle ed umiliarle, comprimendole in una semplificazione riduttiva. Una Politica mite, umile, nel senso letteralmente proprio del termine, che non pretenda di sovrapporre alla effettiva consistenza delle dinamiche sociali i propri presupposti ideologici o addirittura costellazioni di interessi precostituiti.
In secondo luogo, dobbiamo comprendere come oggi la Politica vada considerata, vissuta ed agita come una funzione diffusa e non più appannaggio esclusivo delle forze accreditate nei vari livelli istituzionali. qui si apre un importante campo di indagine e di lavoro per le forze attive ed organizzate della società civile e per la pluralità dei corpi intermedi che la abitano: un ambito di lavoro che spetta anche a noi esplorare attivamente.
Domenico Galbiati
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