“…….ci vengono riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana, essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai… A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza , che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini e spesso al di là delle loro aspettative…..”.

Sono parole pronunciate, l’11 ottobre 1962, da Papa Giovanni, nel discorso di apertura del Concilio e riprese da Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium”. Ispirate ad un sentimento di fiducia nell’umanità e di speranza. Parole con le quali Papa Giovanni innalza a criterio di interpretazione e di guida della storia universale, quella fede popolare nella Provvidenza che, vissuta e testimoniata nella sua famiglia di contadini bergamaschi, fin da bambino, ha nutrito la sua anima.

A riprova di quanto lo Spirito davvero soffi dove vuole e come in quel tempo investisse con una intensità sorprendente quel lembo di terra  lombarda in cui nascevano e crescevano, a poche decine di chilometri l’uno dall’ altro, il Pontefice che avrebbe concepito e quello che avrebbe guidato e chiuso il Concilio Vaticano II, uno dei più grandi eventi della storia della Chiesa universale che, ben oltre il mondo dei credenti, ha segnato un’epoca intera come uno spartiacque.

Da Sotto il Monte a Concesio, dal cattolicesimo popolare bergamasco, al cattolicesimo colto bresciano, dal Papa della “Mater et Magistra” e della “Pacem in terris”, Giovanni XXIII, al Papa della “Popolorum progressio”, Paolo VI. Detto per inciso, forse soprattutto noi lombardi dovremmo riflettere ancora su questa straordinaria fioritura cristiana delle nostre terre, sulla ricca articolazione in differenti posture della stessa fede, a cominciare dal cattolicesimo “ambrosiano”,  a forte impronta sociale.

Ma, per tornare alle parole di Papa Giovanni, non è certo casuale che siano state pronunciate solo cinque giorni  prima che scoppiasse la crisi dei missili sovietici a Cuba, quindi in un contesto di acuta ed avvelenata tensione tra i due blocchi, nella fase più cruda e scivolosa della guerra fredda, in un momento in cui, mai pericolosamente come allora, camminavamo sull’orlo del possibile olocausto nucleare.

Ce la sentiamo, con la guerra che percuote il cuore dell’Europa, lo spettro nucleare che viene ancora evocato e la pandemia che tuttora serpeggia, di ripetere e sottoscrivere quelle parole di Papa Giovanni? Si tratta di una domanda alla quale ognuno può rispondere solo per sé’ stesso.

Le affermazioni di Papa Giovanni, spinte davvero, attraverso l’assemblea dei Padri Conciliari davanti alla quale sono state pronunciate in quel lontano autunno, fino ai confini del mondo, si prestano ad un’analisi, ad una sorta di ricerca e, si potrebbe dire, di esperimento concettuale che, in definitiva, ha molto a che vedere, ed in tal senso può’ essere illuminante, con quanto viviamo in questi nostri giorni.

Vi sono pensatori – su tutti, ad esempio, Jurgen Habermas, filosofo della Scuola di Francoforte, esponente di punta del cosiddetto pensiero “post-metafisico”, dichiaratamente “ateo”, almeno dal punto di vista metodologico – i quali, pur laici a tutto tondo, guardano con rispetto ed attenzione al linguaggio religioso. Ritengono, infatti, che vi si rintraccino spunti, visioni, intuizioni, contestuali alla fede, che sono potenzialmente molte ricche, fonti di ispirazioni irrinunciabili anche per la vita civile. Senonché, sostengono come tali risorse siano imprigionate in un abito mentale sostanzialmente di carattere “mitico”, da cui devono, a loro avviso,  essere  sciolte e liberate e, quindi, traslate su quel piano concettuale di natura rigorosamente razionale che corrisponda e dia conto della compiuta secolarizzazione del mondo.

Se analizzassimo da vicino le parole di Papa Giovanni, come se dovessimo vivisezionarle, spacchettandole in una sequenza di proposizioni da esaminare una per una, riusciremmo a capirle, contenerle, ricondurle integralmente entro una lettura “riduzionista”, in qualche modo similare a quanto succede nell’ambito delle scienze naturali, laddove si cerca di spiegare fenomeni complessi, appunto “riducendoli” alle loro componenti più semplici ed elementari?

Che vi sia una “stoffa” umana che ha resistito a tragedie, genocidi, olocausti e crimini immani è una constatazione che non dissolve ogni ragionevole dubbio in ordine alla nostra stessa sopravvivenza, eppure, razionalmente, ci incoraggia a non cadere nello sconforto, “quasi incombesse la fine del mondo”.

Analogamente, è argomentabile, facilmente accessibile al nostro pensiero la consapevolezza o almeno la sensazione che ci stiamo davvero  avvicinando al passaggio, nella storia dell’umanità, ad “un nuovo ordine di cose”. Così il fatto che l’ “opera degli uomini”, il portato delle nostre azioni “che si realizzano in tempi successivi”, cioè secondo lo sviluppo storico degli eventi, si intrecci con una ulteriorità che feconda ed arricchisce i nostri gesti, i nostri comportamenti, “spesso al di là delle (nostre ) aspettative”. Eppure persiste, in quelle parole da cui abbiamo preso le mosse, un “residuo” irriducibile, difficile da definire, ma non ascrivibile ad una sfera meramente emozionale o soggettiva.

Persiste la coscienza – una convinzione, si potrebbe dire, lucida ed insieme oscura, inconfutabile eppure inquieta – che vi sia, nell’ordine delle cose che pure sembrano accavallarsi confusamente, come se precipitassero le une sulla altre in una cascata indecifrabile che si autoalimenta, non un disegno già compiuto che attenda solo di mostrarsi, ma, molto di più, la traccia di un cammino che, pur faticosamente, ricerca un senso della storia che Papa Giovanni, secondo il lessico religioso che gli appartiene, ascrive ai “misteriosi piani della Provvidenza”.

Insomma, lo sguarda religioso, credente, che si rivolge agli accadimenti della storia non può essere risolto e dissolto sul piano di una riflessione meramente “secolare”.

Ha una specificità che non può essere elusa ed assorbita nella contingenza immediata degli avvenimenti, ma, al contrario, li dispone e li giudica in una dimensione che possiamo chiamare “trascendente”, cioè secondo quel guardare “oltre” che, anche ad uno sguardo prettamente laico e secolare, insegna a non lasciarsi catturare da una immanenza accecante.

Domenico Galbiati

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