Stefano Zamagni da un po’ di tempo invita tutti a riflettere sulla Lettera a Diogneto ( CLICCA QUI ). Si tratta di un antichissimo testo risalente al secondo secolo dopo Cristo, ma rimasto per oltre mille e duecento anni dimenticato e, persino, sconosciuto ai più. Alcuni secoli dopo il ritrovamento, l’originale venne distrutto dall’incendio della biblioteca di Strasburgo, dove si trovava, colpita dal cannoneggiamento tra prussiani e francesi nel corso della guerra del 1870. Si deve la sua sopravvivenza a tre copie realizzate nel 1500.

E’, come dice Zamagni,” il primo documento organico che tratta dell’impegno socio-politico dei cristiani”.

L’ignoto scrittore stende, per l’altrettanto sconosciuto Diogneto, quella che oggi si chiamerebbe una “nota” informativa sui componenti questa particolare specie umana e sulle loro relazioni sociali.  Spiega: i cristiani “ rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo. L’anima poi dimora nel corpo, ma non proviene da esso; ed anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo che si vede; anche i cristiani li vediamo abitare nel mondo, ma la loro pietà è invisibile”.

“Nuova stirpe e maniera di vivere”, comparsi al mondo “ora e non prima”, cioè solo dopo l’arrivo del Cristo. Uomini come gli altri, vivono come gli altri, in mezzo agli altri, ma da forestieri. Cittadini, eppure stranieri. Il fatto è che:  “dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” e “testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale: obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi”. Sono dunque “operatori” sociali e vivono secondo i criteri della cosiddetta cittadinanza attiva.

E’ quello che inizialmente sembravano impossibilitate a capire la cultura e la struttura del potere dei romani, accanite contro i cristiani in maniera particolare. Come mai fatto nei confronti di altri gruppi etnici o religiosi assorbiti nell’Impero, a meno che essi non scendessero in armi contro Roma, i suoi simboli e i suoi rappresentanti.

A mano a mano che il messaggio evangelico si diffonde, viene sempre meglio compreso il significato del discorso di Cristo: date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Indubbiamente, conciliatoria questa affermazione. Al tempo stesso, rivelatrice dell’esistenza di concrete, possibili criticità, contraddittorietà e ambiguità. Il riferimento alle due facce di una stessa moneta, infatti, coglie la particolare dicotomia di fatto esistente, e insolubile, tra dimensioni che restano distinte, ma indissolubilmente unite. Lo abbiamo appena sentito: i cristiani “dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo”.

Intrigante valenza nel privato, ma cosa di rilievo maggiore nella dimensione della pubblica responsabilità. Tale pure ai giorni nostri, quando non meno forti esistono le questioni dell’autorità, delle disuguaglianze economiche e sociali, della coerenza tra l’ispirazione e il comportamento e le scelte. Insomma, si ripresenta continuamente quella che Leone XIII definisce nella Rerum Novarum “l’ardente brama di novità” che agita i popoli e finisce per riguardare, dunque,  la politica e l’economia sociale.

Ai nostri giorni, sono da considerare le maggiori complessità per un essere umano davvero atomizzato, per le decisioni da assumere in un contesto definito dal diffondersi dell’anelito democratico e dal pluralismo. Caratteristiche della società moderna che rendono infinitamente più complicato navigare nell’odierno mare aperto in cui ci troviamo e in cui mancano, in ogni caso, più certi riferimenti per l’ampliarsi e il variegarsi della molteplicità degli stili di vita, degli usi e costumi e delle espressioni culturali e del pensare, oltre a tutto ciò che evolve, o regredisce,  a livello etico.

Diogneto già incuriosito dai cristiani, c’è da presumere venga a meglio sapere dell’esistenza di uno specifico tipo umano. Legge nell’epistola lui indirizzata che i cristiani rompono ogni logica di appartenenza. Egli s’imbatte in uno spirito totalmente non conforme alla cultura dei suoi tempi, così come non lo è con quella che ai giorni nostri chiamiamo “cultura dominante”.

La partecipazione dei cristiani è immersione nella Storia e separatezza al tempo stesso, fino a divenire persino “astrazione” dalle dinamiche della cronaca. Però, così è informato Diogneto: “i cristiani si vedono nel mondo”.

Dove e come? Quando e là dove ascoltano Saulo che, sulla via di Damasco, ricevette una “nota” direttamente da chi sa scrivere in maniera essenziale ed efficace, per divenire Paolo e, quindi, dire:   “offrite le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia”.

“Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”. Anche questo legge Diogneto. La Vita vera, dunque, i cristiani la guadagnano assumendo la piena responsabilità di ciò in cui s’imbattono. Sono “costretti” a cogliere quelli che Giovanni XXIII definirà i “segni dei tempi”. Non è loro concessa la liceità di non farlo.

Lungo il cammino umano, questi “ segni dei tempi” mutano, assumono sembianze nuove e sempre più articolate e complesse. Continuano a porre la questione delle relazioni con gli altri. Solo apparentemente distinta, ma compenetrata  in esse, per ciò che riguarda la coltivazione del senso pieno della Vita da parte di ciascuno di noi. Ciò è inevitabilmente collegato con il misurarsi con il Mondo e, quindi, con l’ambiente e la natura, dai cristiani assunte quali proprietà divine che agli uomini giungono solo in uso.

Nella Lettera ritroviamo, così, un antefatto fondante della visione agostiniana del “giusto” uso dei beni, di quella francescana dell’uomo in grado di riconoscere la pari dignità ad una natura animata da tante altre cose viventi, fatta com’è di animali, piante, corsi d’acqua, mari e montagne. Antefatto, allora, pure di quella “conversione ecologica” cui sollecita Papa Francesco nella  “Laudato Si’ che sottolinea come “i cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità”.

Per capire appieno la possente forza e l’altrettanto possente significato di ciò che legge Diogneto dobbiamo riflettere sul suo tempo.

I secoli II° e III° sono quelli in cui si sta consolidando la concezione dell’Autorità e del Potere ruotanti attorno all’assolutismo imperiale. Nella Roma imperiale, siamo in piena fase di superamento della Repubblica intesa come “res populi” e la comunità degli uomini non è più retta da un governo basato sullo “juris consensus”, cosa che presuppone una limitazione del potere legislativo e decisionale.

Sono dunque i cristiani a raccogliere il testimone e a tenere vivo ciò che implica la visione repubblicana e popolare della Roma pre cesarea, la quale tutto fa discendere dal diritto di natura e dal concetto di libertà inteso come presupposto  della legittimità dello Stato organizzato. Lo fanno in maniera più forte per l’avere loro “cittadinanza nel cielo”; in maniera più estesa, perché si riferiscono ad una più ampia platea dei soggetti portatori di diritti: i cristiani guardano alle prerogative afferenti l’universalità degli essere umani. Non come Cicerone, il più alto rappresentante dello spirito repubblicano dei padri, il quale però si riferisce ai soli possessori della piena cittadinanza romana, da cui erano esclusi gli schiavi e quasi tutti i liberti, oltre a porre la donna in una condizione d’inferiorità.

Nella costruzione imperiale, è tra i cristiani, allora, che resta coltivata la contrarietà alla visione assolutistica, sostanzialmente destinata a  guidare l’Europa fino alla Rivoluzione francese. Questo spiega anche la lunga serie di persecuzioni condotte dagli imperatori a loro spese, affatto giustificate solo da una questione religiosa. Al fondo vi è l’accusa di essere sovvertitori fin dalle fondamenta culturali e sociali dell’Impero.

La visione assolutistica sarà solo parzialmente attenuata in seguito allo svilupparsi del  fenomeno barbarico, che fu accadimento non statuale, bensì etnico e di popolo, sulla base del riconoscimento dell’autorità reale accettata solo in quanto espressione dell’esistenza di un patto che lega il monarca al popolo. Quest’ultimo si attende dall’Autorità l’amministrazione della giustizia e le regole comuni emanate attraverso le leggi.

Si prepara così il pensiero di san Tommaso per il quale, essendo compito dell’Autorità costituita il perseguimento del bene comune, essa diviene la rappresentazione e la soluzione delle necessità pubbliche e, se ciò non è, è lo stesso popolo destinato a  impedire che l’autorità si trasformi in tirannide.

A questo punto ci si deve chiedere perché scompaia il documento indirizzato a Diogneto, tanto essenziale ed efficace.

Una spiegazione dell’oblio in cui è finita per essere avvolta la Lettera sta forse nel fatto che, nel secolo successivo, si modifica quello che oggi definiamo dibattito politico. Esso va focalizzandosi attorno all’entrata sulla scena istituzionale del cristianesimo, a seguito del suo travolgente diffondersi. Cosa di cui tenne con grande realismo conto Costantino all’indomani della vittoria su Massenzio, che è del 312, sfociando il quell’editto di Milano dell’anno successivo e passato alla storia con il solo suo nome, anche se in realtà co-firmato con Licinio, sotto la cui autorità giaceva la parte orientale dell’Impero.

Da allora in poi il problema centrale diviene l’interpretazione da dare alla provenienza divina del Potere e alle relazioni correnti tra lo Stato e la Chiesa. Questioni che domineranno il pensiero pubblico, le dispute e le relazioni tra i monarchi e il Papato fino ai successivi secoli, soprattutto dal X° al XIII°, in cui assunse un particolare rilievo la “ lotta per le investiture”, durata per un secolo e mezzo, parzialmente risolte con il Concordato di Worms del 1122.

Eppure un’altra Chiesa, in gran parte sottostante quella ufficiale, teneva desta la pulsante vitalità del contenuto della “nota” diretta a Diogneto. A conferma di come la comunità dei cristiani è tratteggiata da San Paolo: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri”.

Tra queste “molte membra”, così, vi sono quelle che perseguono la continuità dei contenuti di un altro importante documento precedente il messaggio a Diogneto. La lettera di Giacomo, secondo alcuni ancora troppo poco presente nel corso delle funzioni domenicali. Giacomo sottolinea: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: ‘Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta’ ”.

Il pensiero di san Giacomo, spesso considerato troppo semplicisticamente invito a una rivolta sociale e posto persino in opposizione a quello di san Paolo, per una sua condanna più esplicita dello sfruttamento dei poveri e il richiamo dei ricchi all’osservanza dei loro doveri pubblici, è stato definito espressione di “un cristianesimo popolare”, esaltatore delle idee di uguaglianza che finiscono per far coincidere “il senso della pietà religiosa con la povertà”. Anche se, come dice Luciano Orabona, quel pensiero non diventa comunismo primitivo, neanche “un manifesto sociale di sollevazione dei diseredati” e neppure scelta vincolante per i cristiani a favore della comunione dei beni. E’ bensì analisi oggi definibile pre politica e sociologica in virtù della quale Giacomo non condanna tutti i ricchi, ma i profittatori, quanti non pagano giustamente il lavoro, i truffatori dei lavoratori, le cui grida giungono “ fino agli orecchi del Signore”, coloro che uccidono “ il giusto”.

La Lettera a Diogneto, e i suoi esplicativi contenuti  socio- politici, rafforzano una continuità di pensiero destinata a proseguire con i “Primi Padri”, successivi a quelli “Apostolici”, allorquando indagano sulla proprietà privata, sulla ricchezza e sui beni e, dunque, sulle disparità e le disuguaglianze. Già Giustino, martire nel 165, avrà comunque scritto: “quelli che possediamo, andiamo incontro a tutti i bisognosi e formiamo sempre una cosa sola”.

Attraverso Cipriano, i Clemente, quello romano e quello d’Alessandria, Crisostomo,  Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, solo per citarne alcuni, si delinea, così, la questione del “corpo sociale”e meglio si comincia a precisare l’organicità di una visione che fa da sottofondo a tutta la Lettera a Diogneto. I Padri ribadiscono, sulla base della “sottoposizione di ciascuno al prossimo suo”, la forza della fratellanza. Essa è inevitabilmente traslata in un atteggiamento ed una sensibilità pubblica perché è l’intero “corpo a salvarsi”, dove il corpo è, ovviamente, quello sociale paragonato a quello umano. In questo modo, è il concetto di solidarietà che comincia a tradursi anche in impegno “politico”, nel senso che l’individuo va oltre ciò che lo riguarda singolarmente, supera il rapporto esclusivamente bilaterale con l’altro suo simile e l’attenzione per l’altro evolve in responsabilità collettiva.

Come ci raccontano i tradizionali libri di storia, però, è indubbio che per secoli e secoli sono restate soprattutto centrali la questione dei rapporti tra le autorità, intese come regni e principati, e il concetto stesso di autorità, mentre quello che riguarda il popolo è stato relegato sullo sfondo.

Invece, con il permanere della tensione solidaristica, come del resto confermano le tante espressioni emergenti attraverso gli ordini mendicanti e la dedizione verso i disagiati da parte del clero minore e di una buona parte di quello conventuale, anche a livello concettuale è posto il tema dell’etica sociale inevitabilmente sollecitata dalla continua riproposizione della questione del popolo di Dio che, come ricorda il compilatore della “nota” indirizzata a Diogneto, vive in un mondo costituito da un popolo più grande di cui deve farsi anima.

Giancarlo Infante

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