La liberazione – “il grande esodo dal deserto del fascismo”, come ebbe a dire Aldo Moro – è il dono che le generazioni del secondo dopoguerra hanno ricevuto da coloro che le hanno precedute, dai “ribelli per amore” che hanno sacrificato le loro giovani vite per l’ideale della libertà. La libertà, al contrario, non è mai un dono servito su un piatto d’argento, bensì, da ciascuno, va conquistata e, del resto, non è forse mai del tutto compiuta. Soprattutto, per ognuno, tuttora e sempre, per essere effettivamente tale, costa la fatica di un impegno personale, più arduo di quanto comunemente si pensi. Ed è, infatti, un dovere da compiere, ancor prima che un diritto da rivendicare.

Ha ragione Luciano Violante quando afferma sulle pagine del Corriere di lunedì scorso: “….solo pochi patetici nostalgici vogliono difendere il fascismo. Il problema italiano sta oggi nei rigurgiti di razzismo, antisemitismo, di violenza sui più deboli. Bisogna combattere questi sentimenti chiamandoli con il proprio nome”. Infatti, se pur la forma del fascismo, così come l’Italia l’ha storicamente conosciuta, non può, in alcun modo riapparire, se per “fascismo” intendiamo ogni forma di coartazione della libertà, di umiliazione della coscienza civile e della dignità delle persone, è necessario osservare quale forma vadano assumendo oggi queste ferite, mai del tutto rimarginate, secondo declinazioni consone al momento storico che stiamo attraversando.

Ogni dittatura, qualunque sia la sua connotazione ideologica, è una sopraffazione violenta che persegue, anzitutto, l’ obiettivo di una piena omologazione dei comportamenti e delle attese, delle aspirazioni e delle volontà represse di un popolo che viene vilipeso e degradato a misura di “gregge”. Senonché, a quest’ultimo stadio di avvilente allineamento al “capo” di turno oppure al pensiero dominante, ci si arriva anche passando attraverso la “gente”, cioè quella condizione intermedia che segnala il livello di maggior integrazione possibile, ma vistosamente carente, in un ambiente a forte caratterizzazione individualista, come il nostro.

Si potrebbe dire che la “gente” sta al “popolo” come l’ “autodeterminazione” sta alla “liberta’”, atteso che quest’ultima è pur sempre un “bene di relazione”, che si afferma in un rapporto vitale con il prossimo e mai si compiace di una postura “autoreferenziale”, anzi è tanto più autentica, quanto più ne rompe l’assedio.

Anche oggi, per quanto troppe volte non lo avvertivano, nelle nostre società sviluppate e mature sono all’opera potentissimi processi che puntano, appunto, alla “omologazione” delle mode e dei costumi, dei consumi e dei gusti, dei comportamenti, ma anche delle attese e delle speranze, dei progetti e delle aspettative di vita, perfino delle emozioni e dei pensieri. Si tratta di fenomeni che vengono favoriti e sollecitati dall’ illusione che la “complessità” sociale sia governabile solo comprimendone la vitalità entro camice di forza preordinate. Processi favoriti, anzi attivamente promossi, da quei poteri, ad un tempo forti ed anonimi, che cercano di soverchiate quel “primato della politica”, che rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente affinché la libertà non venga di fatto conculcata, sia pure in forme soffici e suadenti.

“Primato della politica” che tutti i partiti, dall’ una e dall’ altra parte, dovrebbero aspirare a ricomporre, ma forse non è esattamente così.

Domenico Galbiati

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