La “gravidanza per altri” (Gpa) – comunemente detta “maternità surrogata” – mostra, in modo assolutamente emblematico, come ed in quale misura la tecnica applicata ai processi della vita eserciti un formidabile indotto antropologico, un effetto dirimente sull’ “autocomprensione” dell’ umanità, cioè sulla considerazione di sé, della vita e della storia che l’uomo via via matura e adatta al tempo che gli è dato vivere. Mostra, in modo perfino brutale, quale sia, si può dire, il potere “diabolico” della tecnica, non, ovviamente, nel senso satanico del termine, bensì secondo la sua corretta etimologia, che, dal “dia-ballo” greco, evoca il dividere ed il separare.

Perfino la maternità, assecondando acriticamente la tecnica, può essere divisa in almeno cinque momenti: l’ovulazione, la formazione dello zigote, la gestazione, l’allattamento e le prime cure, soprattutto la primissima interfaccia madre-bambino e poi l’educazione con quel che segue.

E’ possibile – tecnicamente – che ad ognuna di queste fasi provveda una “madre” diversa, ma questo smembramento compromette in radice sia l’ “essere madre” che l’ “essere figlio”. Laddove determinati processi biologici possono essere “surrogati” dalla tecnica e, quindi, riprodotti nella loro nuda materialità, per quanto possano essere così’ puntualmente ridisegnati, sempre e comunque vengono radicalmente sconnessi dal contesto emozionale e simbolico che li accompagna, negando in tal modo la ricchezza di un “vissuto” necessariamente tributario di entrambi questi versanti. Significa coltivare la pretesa di “produrre” la vita sradicandola da sé stessa, fino a smarrirne il valore intrinsecamente umano, “rovesciandola” nel suo contrario. In questo senso, la “Gpa” è un po’ il modello estremizzato di quanto avviene in altri ambiti di applicazione delle biotecnologie, anche più’ sofisticate.

C’ è una tagliola sulla strada che l’ umanità va percorrendo ed in cui – se già non l’ha fatto – rischia di incappare, ingannata dalla succulenta esca che nasconde la trappola e la fa scattare: la convinzione, sempre più’ diffusa, che tutto ciò che è tecnicamente possibile sia “per ciò stesso”, per questa sola ragione necessaria e sufficiente, anche eticamente legittimo.

Giù per questa china, l’uomo va inconsapevolmente incontro ad una paurosa alienazione, trasferendo la legittimazione morale dei suoi atti dall’interiorità della propria coscienza alla mera fattualità della tecnica. Eppure questa condizione che vede l’ uomo andare, grazie alla cultura che ha progressivamente elaborato, oltre il dettato della natura, nel cui alveo si è fin sviluppata la sua azione, gli offre anche la straordinaria opportunità di toccare un limite che gli appartiene costitutivamente.

Disattenderlo – sognando, ad esempio, i paradisi artificiali del “post” o del “trans-umano” – significa affermare sé stesso o piuttosto consegnarsi ad un potere “altro” che ne scompone l’identità autentica? Osservarlo, al contrario, vuol dire acquisire una più consapevole coscienza, una compiuta padronanza di sé.

Il “limes”, del resto, non è un confine invalicabile, ma piuttosto una frontiera che, sul versante interno, permette di ordinare al meglio il campo delle proprie potenzialità, sull’ altro consente all’ umanità di aprire strade e percorsi di esplorazione di nuove praterie di senso che si offrono alla vita del suo spirito.

Domenico Galbiati

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