Chi, come il sottoscritto, ricorda la vita politica del secondo dopoguerra probabilmente resterà sempre stupito di fronte a quella che si può definire la metamorfosi della sinistra avvenuta sul finire degli anni Ottanta.
Con il fallimento del “socialismo reale” realizzato nell’URSS, e la crisi delle tradizionali politiche di stampo laburista, il liberalismo è apparso un vincitore senza alternative, e gli orfani di quelle esperienze sconfitte sono andati in cerca di una collocazione nella nuova casa liberale. Prendendo atto che il capitalismo assicura crescita economica e produzione di ricchezza più efficacemente dei sistemi socialisti, le sinistre si sono date il compito di destinare parte significativa di quella ricchezza a tutela delle categorie sociali da esse storicamente rappresentate (classe operaia in primis).
Tuttavia, nell’economia globalizzata, contrassegnata da una spietata concorrenza che mette in ginocchio chi resta indietro, le esigenze produttive delle imprese e la destinazione dei capitali ad investimenti nelle aziende e nelle infrastrutture vengono prima della più equa ripartizione della ricchezza e della spesa sociale. Inoltre (come evidenzia anche il richiamo della UE ai Paesi membri di rientrare dal debito pubblico o di ridimensionarlo), si rivela illusoria l’idea pseudo-keynesiana di una illimitata capacità di indebitamento degli Stati a sostegno delle più varie spese, ivi compresa quella sociale, senza che prima o poi si giunga ad un redde rationem. In tal modo, nell’attuale contesto, si finisce per dover ridimensionale l’ambizione di realizzare una società più equa.
A quel tempo, Walter Vetroni (facendo sue parole di Olaf Palme) disse che la sinistra non era contro la ricchezza, ma era impegnata a contrastare la povertà. Così è stata messa da parte l’eguaglianza, e le politiche sociali promosse dalla sinistra non sono apparse molto distanti da quelle dei partiti di centro e perfino dalle misure compassionevoli sostenute dai conservatori. C’era pertanto la necessità di trovare un altro terreno su cui distinguersi.
Zygmunt Bauman ha evidenziato questo mutamento di rotta. La società odierna, scrisse, ha abbandonato l’aspirazione, diffusa ancora alcuni decenni fa, di costruire un mondo più giusto. In sua vece, viene adottato il riferimento ai diritti civili. Questi debbono essere estesi e sviluppati, nella ricerca di nuove, soddisfacenti forme di coabitazione in una società sempre più differenziata. A tale fine, si registrano vecchie istanze inappagate, se ne articolano di nuove e si cerca di conquistarne il riconoscimento. La logica delle guerre di riconoscimento, condotte da minoranze combattive, spinge a radicalizzare le differenze, e rischia di sfociare nel fondamentalismo e nel settarismo. Si finisce così per produrre divisioni, contrasti e mancanza di dialogo, specialmente se dette istanze non siano inquadrate in una ricerca di maggiore eguaglianza. Malgrado ciò, a sinistra, si è dato crescente spazio alle richieste di riconoscimento dei portatori di istanze inappagate.
Inoltre, in Europa ed in particolare in Italia, l’influenza degli USA, paese leader dell’Occidente e unica potenza di respiro planetario, è andata allargandosi a tutti gli ambiti investendo anche le culture politiche. L’ideologia liberal, che connota la sinistra nordamericana, ha progressivamente scalzato nel cosiddetto “popolo della sinistra” non solo ogni traccia di marxismo, ma in larga misura anche i riferimenti propri del socialismo riformista, dando crescente spazio alle domande delle minoranze ritenute discriminate. Così la sinistra è diventata sostenitrice del politicamente corretto, del femminismo più spinto, del transessualismo, della cancel culture, del wokismo, ecc.
Il fenomeno non ha toccato le sole sinistre di vario genere, ma ha investito altri territori politici e culturali, sfiorando perfino i populisti. In particolare, ne sono stati coinvolti l’ambientalismo, i verdi e parte del mondo della decrescita.
Recentemente, degli articoli in polemica con questa mutazione pubblicati su “La Décroissance – mensuel des objecteurs de croissance”, ripresi in parte dal foglio italiano di pari denominazione, hanno scatenato la virulenta reazione di coloro che, per semplificare, definisco fautori delle “novità”. Per costoro, non si possono prendere in considerazione e discutere le argomentazioni introdotte in materia da quanti sono definiti maschi bianchi, eterosessuali, cisgenici (sic), nemici delle donne emancipate, omofobi, razzisti e reazionari, ecc. Non bisogna accettare un dibattito con chi espone tesi aberranti, né dare loro alcun spazio. Che cosa era stato detto nella sopracitata rivista?
Dany-Robert Dufour (autore di Le Phénomene trans), intervistato dal direttore della rivista, ha posto all’origine delle “novità” sopra descritte il Sessantotto (o parte significativa del movimento), in sintonia con la tesi di Jacques Lacan. Il noto psichiatra e psicanalista francese, a suo tempo, lo interpretò come una rivolta dei figli contro i padri, quei padri che hanno il compito di staccare i figli da un abbraccio materno sovente troppo protettivo e dalle soffocanti sicurezze che questo comporta, per portarli a guardare avanti, ad una realtà fatta di limiti, di responsabilità, di difficoltà ed in cui non mancano gli insuccessi. Per Lacan, il declino della funzione paterna emerso negli anni della contestazione avrebbe portato a degli “eterni bambini”. L’eterno bambino è una persona bloccata in una infanzia prolungata, una creatura senza il senso del limite, abbandonata a se stessa, che in apparenza sembra gioire di un’onnipotenza, che, in realtà, la devasta.
Secondo Dufour, l’idea che ogni desiderio possa essere soddisfatto dal Mercato e dalla Tecnica, perché non ci sarebbero limiti di ordine biologico, naturale, spaziale (vedi il transessualismo e transumanesimo), è frutto della stessa matrice dell’ideologia della crescita infinita.
Ma non può esserci una crescita infinita. I greci dicevano che colui che è vittima dell’hybris (la dismisura) va incontro alla nemesi, il castigo. E il castigo della crescita infinita sono gli squilibri ambientali che minacciano la vita sulla terra, e gli squilibri psichici, sociali e giuridici che scaturiscono dalle affermazioni grottesche che negano la componente biologica dell’essere umano (comprensiva di quella etologica), affermazioni per le quali un uomo può essere o diventare una donna e viceversa ignorando quanto detta il patrimonio genetico di ogni persona.
Dufour rileva che gli eterni bambini sono una manna dal cielo per il Mercato Totale che promette loro la soddisfazione di ogni pulsione, essendo essi sempre bisognosi di consumare i prodotti della società di massa e le fantasticherie su misura offerte dall’industria culturale.
Quindi il “nuovo”, fatto proprio ormai da un ampio settore politico e culturale, corrisponde agli interessi dell’oligarchia interprete delle necessità del Mercato Totale che, non a caso, è schierata a sostegno delle “novità”. Una oligarchia, aggiungo, promotrice della globalizzazione, da sempre favorevole al nuovo orientamento culturale perché contribuisce ad omologare la società abbattendo gli ostacoli alla circolazione di merci, capitali ed esseri umani, ovvero barriere rappresentate dalle diversità culturali e religiose, dalle appartenenze etniche, nazionali e familiari.
Se questo processo di omologazione è andato molto avanti in vari ambiti, a partire dai comportamenti dei consumatori, tuttavia nella società assistiamo al nascere e all’approfondirsi di divisioni e contrasti per il crescere delle diseguaglianze e per le guerre di riconoscimento condotte da gruppi in larga misura minoritari, la cui voce trova però un ascolto privilegiato nei media e nel mondo liberal.
Così, si rischia di andare incontro a una situazione esplosiva qualora la contrapposizione fra fautori delle “novità” di marca liberal e quanti sono rimasti ancorati ai valori “tradizionali” si sovrapponesse a una frattura sociale fra la classe dei facoltosi, di chi ha avuto successo con la globalizzazione o possiede titoli di studio di università di prestigio, e quella di chi è rimasto indietro in tema di retribuzioni, di titoli di studio e di status sociale. Infatti già oggi, i “progressisti” si affermano elettoralmente nei quartieri “bene” e subiscono dure sconfitte nelle periferie urbane.
Tale spaccatura della società è particolarmente grave negli USA, Paese che spesso anticipa fenomeni destinati a generalizzarsi.
Federico Rampini (non certo un ammiratore di Trump), in una recente trasmissione televisiva, ha fatto un’analisi della società americana polemizzando con la superficiale e grottesca rappresentazione che i media nostrani forniscono di quanti votano il discusso candidato repubblicano, un voto in realtà dato prevalentemente in polemica con le forze politiche ritenute espressione dell’élite oligarchica o ad essa vicine. Quest’ultima è ritenuta responsabile di quei cambiamenti che hanno penalizzato la classe operaia, i lavoratori di basso livello professionale, abbattuto il potere rivendicativo dei sindacati, indebolito la classe media, e tolto ogni speranza a chi sta in basso di poter cambiare il proprio status sociale.
E non c’è solo il disagio economico. Di fronte alle novità di cui si è fatta paladina l’élite liberal, scoppia la rabbia di chi (come dice Ernesto Galli della Loggia) non riesce più a riconoscersi nella società in cui è nato e della quale si sono persi i valori di riferimento, di chi non si sente più parte di essa bensì tollerato come un corpo culturalmente estraneo, vittima di una emarginazione che lo relega alla condizione di straniero nel proprio Paese, se non di paria.
Anche in Europa, si intravede una tale pericolosa spaccatura. Luciano Barca (vedi USA ed Europa, la polveriera delle disuguaglianze) ha rimproverato la sinistra perché dovrebbe interrogarsi circa questa crescente rabbia, indicatrice di un profondo disagio, invece di liquidare la questione definendo “qualunquisti” o peggio “bestie” i componenti di una parte rilevante del popolo. Così la sinistra non capisce di essere seduta su una polveriera, e si chiama fuori dal ruolo che connota una classe dirigente.
La destra conservatrice si è forse dimostrata più capace di comprendere quanto sta accadendo? Assolutamente no. Da un canto, si proclama sostenitrice dei valori tradizionali (famiglia, patria, religione), dall’altro si fa paladina in economia di un liberismo che non accetta vincoli in nessun ambito. Di conseguenza, ne risultano indeboliti e talora distrutti proprio quei valori a cui dice di ispirare la sua azione. Si aggiunga che la destra, ancor più della sinistra, sembra carente degli strumenti culturali e delle competenze necessarie per comprendere un mondo in rapido cambiamento. Pertanto, il confronto fra destra e sinistra si riduce a ben poco. In realtà, si riduce a un teatrino per distrarre l’opinione pubblica, perché, nella sostanza, conservatori e progressisti appaiono sempre meno distanti. Nel teatrino, la sinistra difende la componente libertaria e/o culturale del neoliberalismo, la destra quella economica. Si sono ripartite i compiti perché si tratta delle due facce della stessa medaglia.
La metamorfosi non ha quindi riguardato la sola sinistra, ma, sia pure in diversa misura, l’intera area che si riconosce nel neoliberalismo.
Credo che molti, avendo presenti le grandi figure del liberalismo e i loro scritti, respingano ogni accostamento delle “novità” liberal al termine liberale. Tuttavia, primato del mercato e della tecnica, individualismo, rifiuto dei limiti sono componenti del pensiero liberale, che l’attuale ideologia neoliberale porta all’estremo condizionando gli odierni modi di vita. Già Luciano Gallino più volte ci ha detto che l’ideologia neoliberale ha penetrato ogni ambito della società fino a modificare la stessa natura antropologica delle persone.
Secondo Vincent Cheynet (fondatore e caporedattore di “La Décroissance”), stiamo assistendo al compimento della logica del capitale unita a quella della tecnica. Man mano che il capitale e la tecnologia aumentano la loro presa sul mondo, dettano la loro politica all’umanità.
Capitale e tecnologia hanno una cosa in comune: obbediscono alla logica delle cifre, del quantificabile. Come per i computer, la loro lingua è basata su l’uno e lo zero. Ma ci sono gli esseri umani, e, in essi, c’è qualcosa fra l’uno e lo zero, qualcosa d’altro che non sapremo mai perfettamente cosa sia. Ed è proprio questo altro che il capitale e la tecnologia vogliono cancellare.
Così capitale e tecnica ci conducono in un mondo senza alterità, senza immateriale, senza inquantificabile, senza soggettività e quindi senza libertà, libertà nel senso di libertà di coscienza, cioè di discernere tra il bene e il male, il vero e il falso, il bello e il brutto.
Per il capitale e la tecnologia, l’unico criterio è l’efficienza. In un mondo governato dalla logica utilitaristica, cognitivista, funzionalista, nessuna barriera morale può, o deve ostacolare i nostri desideri. Ed è da questa concezione della condizione umana, scrive Cheynet, che si dispiegano tutte le opzioni del liberalismo.
Ma, mentre si mandano in scena gli spettacoli del teatrino della politica, ci sono i problemi, i pericoli ormai sempre più evidenti che, in tutti gli ambiti, nascono dal rifiuto di ogni limite e dal perseguimento di una crescita fine a se stessa.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su www.associazionepopolari.it