Capita in questi giorni che, anziché discutere, si possa semplicemente “chiacchierare “ da remoto. Difficile dire se davvero, a debita distanza, ricorderemo – o lo faranno i nostri posteri – la pandemia come una effettiva svolta epocale.
Molti – e senza evocare i soliti “poteri forti” – non resisteranno alla tentazione di restaurare l’ “ancien regime”.
Eppure, dopo decenni di “nuovismi” a fior di labbra, può essere la volta buona per cogliere il vento che ci sospinga verso un nuovo approdo della storia. In fondo, quel gran parlare di “innovazione” suggeriva come nello spirito del tempo crescesse l’attesa, come il preannuncio, di una fase inedita della nostra storia.
Eppure, era come se quest’onda montante continuasse ad ingrossarsi incurvandosi, ma non avesse forza sufficiente a rovesciarsi finalmente su se stessa per spiaggiare su un mondo nuovo. E poiché la grande storia, in fondo, altro non è che il condensato delle micro-storie di ognuno, è significativo cogliere, qua e là, tante piccole “metanoie” che intervengono nella vita di più persone.
Piccoli segnali, forse, di un possibile più grande rivolgimento? E’ presto per dirlo. Del resto, basta che non ci mettiamo di traverso, immaginando che la stessa virtù dei pubblici poteri stia nella capacità di riportarci “quo ante”.
Così succede, ad esempio, di sentirsi dire da un giornalista, direttore di un giornale on-line, come si sia accorto che la pandemia in corso, imponendo il “distanziamento sociale”, in fondo, stia arricchendo la sua coscienza professionale.
In altri termini, se prima pensava di “portare il reale dentro il virtuale”, oggi si accorge che, nella nuova condizione, in effetti il suo lavoro, anzi la sua responsabilità è piuttosto quella di “portare il virtuale dentro il reale”. Conferendo al virtuale una ricchezza ed una consistenza che altrimenti non avrebbe.
A prima vista, mi è parso fosse un gioco di parole, ma in effetti non è così ed, anzi, questa considerazione dell’amico giornalista tocca un tasto profondo relativamente a ciò che il mondo della comunicazione e della rete, con l’ intera gamma di forme che offre, rappresenta nella condizione-limite che stiamo attraversando. Sostiene, infatti, che se prima ciò che avveniva all’interno della sua comunità di riferimento – cioè il “fatto”, nella sua nuda realtà- per lui costituiva nient’altro che la materia prima del suo lavoro, da “consumare” per “produrre” e confezionare a modo la notizia, ora si accorge come la “notizia” in sé, soprattutto per le fasce di popolazione maggiormente a rischio e più afflitte dal “distanziamento”, sia addirittura – lo evince dai messaggi che riceve – un “alimento”, cioè una cosa viva che concorre, per quel che può, a sollevare un attimo da quel sentimento di solitudine, da quella sorta di deserto relazionale cui siamo costretti. E l’alimento è qualcosa di concreto e vitale per chi lo consuma; non ha più nulla dell’effimero, dell’aleatorio, di quel tanto di etereo, di volatile che connota quella sequenza di bit in cui si risolve il mondo virtuale dell’informazione in rete.
Anzitutto, va detto, appunto, come la riflessione di questo amico, la piccola “metanoia” cui è andato incontro, sia un piccolo esempio di quanto sarebbe importante poter recuperare, anche quando ci saremo lasciati l’emergenza alle spalle, almeno un po’ di quello sguardo trascendente che ci libera dall’ottundimento dell’affaccendarsi quotidiano e ci permette di avere “coscienza della nostra coscienza”. Il che – secondo alcuni neuroscienziati che sono spinti dai loro stessi studi ad impelagarsi nel mare magnum della filosofia – è l’unico modo per avere davvero coscienza.
Significa anche che laddove il fattore umano entra in gioco davvero, magari secondo un’intensità più accesa, come succede in questi giorni, prevale su quel tanto di astratto e di evanescente che sembra accompagnare il “virtuale” e lo riporta dentro una dimensione esistenziale vera, ricca di senso. Infatti – al di là delle comunità di vicinato dei balconi che la creatività degli italiani ha tirato fuori, in questi giorni, come un asso dalla manica – cosa ne sarebbe oggi della nostra vita collettiva – a parte i giornali che forse, a rigor di norma, neppure giustificano i due passi verso l’edicola – se non avessimo le possibilità di comunicazione e di dialogo, di relazione interpersonale assicurate dalla rete?
Se, ad esempio, i social rappresentavano – ed in una condizione di normalità ciò continua forse ad essere vero – un impoverimento, appunto una “virtualizzazione” dello stare insieme – cioè un trattenere sul piano della mera “potenza” ciò che solo nel rapporto diretto pone in “atto” la ricchezza intera della relazione interpersonale – ora assumono, al contrario, un carattere di piena ed effettiva “realtà”.
E questo, in fondo, è confortante nella misura in cui ci permette di affermare che, di per sé, la tecnica ci può rubare l’anima solo se siamo noi a regalargliela. Altrimenti, siamo piuttosto noi, sempre che non troviamo comodo rinunciarvi, a poter ricondurre tutto ciò che attiene il mondo della tecnica nella sfera dell’umano e del suo valore.
Considerazioni che valgono, in buona misura, anche per la vecchia e tradizionale TV. Popper la chiamava “cattiva maestra”, al punto da suggerire che chi vi opera dovesse essere dotato di una apposita patente, esattamente come succede per la guida.
Eppure, va riconosciuto che in questo faticosissimo frangente, nel momento in cui rischiamo la polverizzazione dei rapporti, essa sta svolgendo un importante compito di socializzazione di cui, in fondo, dobbiamo essere grati soprattutto a chi conduce ed anima notiziari e dibattiti, senza cedere ad allarmismi. Insomma, un impegno diretto, una volta tanto, ad evocare un sentimento di responsabilità che unisca il Paese.
Domenico Galbiati

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