La situazione di emergenza sanitaria ed economica indotta dalla diffusione del virus sta diventando un banco di prova per le articolazioni del nostro ordinamento democratico e anche la cartina di tornasole delle scorie ideologiche e irrazionali che si sono via via accumulate, avvelenandolo, nelle arterie del nostro sistema politico.

Come se nell’organismo collettivo del corpo sociale operasse un altro virus che scardina le coordinate di un confronto politico che, per quanto possa essere aspro, non dovrebbe mai prescindere dalle forme di una reciproca legittimazione tra le forze in campo. Noi siamo, invece, al punto che, addirittura a livello di qualche governatore, si adombra la tesi del complotto, si azzarda il dubbio di una manovra di studiata ritorsione del Governo nei confronti delle regioni guidate dal centro-destra.

Il che è, di per sé, gravissimo perché vuol dire ammettere, anche solo in via ipotetica, che la pandemia – cioè le centinaia di morti che registriamo giorno per giorno – possa essere fatta oggetto di uno spregiudicato uso politico. C’è da preoccuparsi se l’avvitamento del costume politico è giunto a tanto, cioè a sancire una sostanziale incomunicabilità tra le parti.

La corretta funzionalità di ogni sistema politico-istituzionale non sta in capo solo al Governo e alla sua maggioranza parlamentare, dando per scontato che, poiché l’opposizione è l’opposizione, le debba essere consentito di mettere in campo toni ed  atteggiamenti che prescindano da ogni elementare senso della misura. Senonché, c’è chi deliberatamente soffia sul fuoco.

C’è il rischio che si crei un clima di astio, di rancore livido, ultima deriva di un bipolarismo che, strutturalmente, predispone ad una contrapposizione destinata a diventare incontenibile quando al dato politico si sovrappongono aspetti emozionali o di contrapposizione personale.

Soprattutto nei momenti più delicati, in politica la forma diventa immediatamente sostanza e, quindi, quando si adotta un linguaggio sprezzante, si scivola, anche senza volerlo, verso forme di violenza che, per quanto larvate, non si sa mai dove finiscano per approdare. La controversia politica tracima sul piano di un contenzioso istituzionale in cui risuonano echi che vengono da lontano.

Il secessionismo non è più pane quotidiano del confronto politico, eppure è stato così largamente seminato in anni neppure tanto lontani da aver profondamente alterato quel sentimento del valore delle autonomie che, correttamente inteso, tuttora rappresenta un pilastro essenziale della nostra democrazia. A tratti, in questi giorni, si è avuta l’impressione che fossimo non tanto una Repubblica, ma piuttosto un sghemba federazione di principati.

Le autonomie, nella nostra visione, sono per recare il valore delle specificità territoriali a un disegno di unità nazionale, in nessun modo per disgregarla.

La continua tensione, l’insistito ping-pong tra Governo centrale e Regioni non fa bene a nessuno. Centralismo ed autonomie, popolo e democrazia, istituzioni e forze politiche: si tratta di polarità che dovremo esaminare in una nuova luce. Del resto, la pandemia finirà pure, ma ci lascerà in eredità una stagione d’incertezza e di precarietà che pretende una cifra di serietà, compostezza, moderazione e responsabilità in grado di andare oltre l’accadere contingente degli eventi che via via subentrano.

Tutto avviene nel momento in cui il Paese è profondamente turbato e scosso dalle prospettive del lock-down incombente. In fondo, è un pò come se, anche nell’organismo politico ed istituzionale della nostra collettività, si fossero formate quelle micro-embolizzazioni diffuse che, al di là della stessa fatica respiratoria, sembrano essere la causa terminale del decesso da Covid-19. In sostanza – fin dove regge questa possibile analogia – siamo di fronte ad una patologia complessa più di quanto non appaia a prima vista, presente anche nel corpo sociale.

Una malattia sistemica che aggredisce non un solo organo, ma una pluralità di apparati e di funzioni – quante sono le componenti sociali che si aggregano nella nazione – nella quale il danno risulta dall’insulto esogeno e, nel contempo, paradossalmente, dalla stessa reazione difensiva dell’organismo, che, nella condizione di marasma incipiente, finisce  per aggredire sé stesso.

Se la pandemia si fosse fermata alla prima ondata, avremmo finito per inscriverla nella categoria degli “incidenti” di percorso. L’ avremmo rubricata nella memoria di ognuno di noi e in quella memoria collettiva del genere umano come una drammatica e dolorosissima vicenda che ha stroncato, in una guerra cruenta, un numero sterminato di vittime, soprattutto anziani, passati per agonie devastanti, ma, in ogni caso, un fenomeno circoscritto, almeno nel tempo.

La seconda fase, anche più cruda, come sale versato sopra una ferita aperta, sta totalmente mutando la prospettiva, non solo perché continua ad infierire su migliaia di vittime. I mesi del lock-down della scorsa primavera hanno creato sentimenti di paura, intesa come stato d’animo suscitato da un pericolo che, per quanto sconosciuto, come nel nostro caso, si pensa ancora di poter ragionevolmente contrastare.

Per quanto il “nemico” lo si conosca meglio, sta subentrando un sentimento d’angoscia. Ci sentiamo impotenti, consegnati ad un fato imponderabile. Il passo successivo potrebbe essere la rassegnazione. E’ messa a dura prova la capacità di “resilienza”, che pure il Paese ha mostrato nella fase uno della pandemia. Si teme il collasso del fronte, della trincea attestata negli ospedali, soprattutto nelle terapie intensive, affidata al personale sanitario; quelli, in sostanza, che ci mettono la faccia ed, anzi ,qualcosa in più, eppure non hanno nemmeno il tempo – né la voglia – di lagnarsi, tanto meno di andare in piazza ad elevare la protesta, ciascuno per la propria parte.

Peraltro, una volta tanto, le manifestazioni della piazza vanno viste con una certa indulgenza  perché, in fondo, rispondono anche al bisogno istintivo di celebrare una sorta di rito collettivo di condivisione. Purché non vengano inquinate da chi semina violenza o strumentalizzate da politici irresponsabili, le “piazze”, in questa fase, possono funzionare,  in qualche modo, come un tonico, un momento in cui si fa anche un’esperienza di solidarietà, dove forse può addirittura maturare un sentimento di coesione e di collegialità che era andato smarrito, da troppo tempo dismesso nel furore della rincorsa all’ affermazione, al successo, al profitto, come unici metri di valutazione.

Certo, è un paradosso e un’ingenuità attendersi che un nuovo costume più riflessivo, la condivisione di un orizzonte comune, un senso più spiccato di reciproca appartenenza, sia pure nelle forme circoscritte di una categoria professionale o simili, possano nascere nel ribollire di una piazza.

Forse dobbiamo abituarci all’idea che la pandemia ci sta rivoltando come un calzino e non dovremmo sorprenderci di qualche effetto imprevisto. In effetti, il timore è che a cedere non sia la linea di combattimento, ma piuttosto il fronte interno.

A cominciare, come già detto, dal complessivo apparato istituzionale del Paese: spinto al limite della sua funzionalità, magari occultate dall’intonaco dei giorni migliori, mostra comunque quelle linee latenti di minor resistenza e di possibile frattura provocate dai movimenti sismici del momento.

Domenico Galbiati

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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