A mano a mano transitiamo dal Manifesto al programma ed alla progressiva definizione delle nuove forme da conferire a ciò che tradizionalmente chiamiamo “partito”.
Si potrebbe dire come la politica sia fatta per tutti, ma non tutti necessariamente siano fatti per la politica.
Questo vale, ovviamente, se per “politica”, per quanto riduttivamente, intendiamo la partecipazione personale, strutturata ed organica alla vita civile della comunità di appartenenza. Cioé, una modalità di presenza non accademica, da “osservatore” per quanto impegnato, bensì diretta, responsabile ed attiva, che assuma, quindi, la forma della “militanza”.
“Fare politica” è, anzitutto, “pensare politicamente”, Questo è giusto che avvenga secondo gradienti di coinvolgimento diversi, corrispondenti all’attitudine di ciascuno.
La partecipazione alla vita civile e democratica del Paese prevede, cioè, una coralità di ruoli e di profili che non si escludono a vicenda ed, anzi, vanno assunti come complementari. Non ha senso contrapporre, ad esempio, formazione e militanza attiva in un partito.
Quest’ultima non dev’essere approssimativa e, dunque, esige a monte una formazione, ma è, nel contempo, lo spazio elettivo in cui questa può darsi; non altrove, non su un piano asettico e meramente teoretico che le conferisca un carattere elitario e selettivo, laddove, al contrario, l’esperienza diretta della controversia politica conserva la caratura “popolare” e democratica, a tutti accessibile della formazione politica.
La “politica” come, del resto, il “sindacato” non sono professioni da apprendere sui banchi di una qualche scuola, ma, anzitutto, “esperienze” da vivere.
Per questo non ha senso il monito, pur spesso ancora ricorrente, a curare la formazione delle coscienze, come se ciò dovesse essere alternativo ad un impegno partitico cui si guarda con palese diffidenza; quasi a volersi preventivamente cautelare da una sorta di colpa originaria ed intrinseca che la militanza politica recherebbe necessariamente in sé.
Non ha senso discutere se sia più appropriato o più rispondente, nel nostro caso, alla tradizione ed alla storia del cattolicesimo democratico, il momento culturale e pre-politico o piuttosto l’impegno politico attivo. L’uno e l’altro si nutrono reciprocamente.
Per questo la questione non è tanto – come ha osservato giustamente anche Giancarlo Infante – “partito sì o partito no”(CLICCA QUI ), quanto piuttosto come sia possibile far convivere e porre in sinergia queste dimensioni differenti, ma reciprocamente necessarie, addirittura dentro la stessa forma organizzata, ma plurale ed articolata, d’impegno.
Si tratta, cioe’, di approfondire la nuova e differente fisionomia che oggi deve assumere un “movimento” che conservi la sua originaria ampiezza di interessi e di apporti e sappia, nel contempo, finalizzarli ad un’ azione storicamente efficace di cui si fa carico quella sorta di “testa di ponte” avanzata rappresentata da coloro che liberamente accettano l’onere personale e la responsabilità diretta, non delegabile ad altri, della militanza nel partito.
Il versante della riflessione e della ricerca, l’apertura e l’ascolto di ciò che via via compare di nuovo ed inatteso nella spontaneità viva e concreta della realtà sociale ed il momento in cui dall’analisi, necessariamente pur sempre un po’ accademica ed asettica, si passa ad una sintesi orientata all’ azione possono – e come? – affiancarsi e creare una vasta sintonia, entro un ambito operativo comune, senza cadere nelle forme di un neo-collateralismo che storicamente oggi non avrebbe alcun senso.
Senonchè, questo passaggio indispensabile alla militanza attiva – nelle forme, per quanto da ripensare a fondo, del “partito politico” – oggi non sempre gode di buona stampa, anzi è spesso appesantito, appunto, da molta diffidenza, se non addirittura dall’alea di un sospetto o addirittura di un larvato spregio.
Bisogna, dunque, focalizzarne meglio la natura ed il carattere. Anzitutto, va osservato come la formale adesione ad un partito debba, pur sempre, prendere le mosse dal superamento di quella propensione autoreferenziale che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, riserva ai propri convincimenti. Significa accettare di mettere in comune con altri, sulla scorta di un orientamento di fondo comune, la propria personale ed esclusiva facoltà di giudizio e la propria attitudine operativa.
Non è, dunque, non implica, a suo modo, un gesto, un atteggiamento di umiltà, non nel senso un po’ vischioso e moralistico con cui spesso si esibisce ad arte tale virtù, ma nel senso proprio del termine?
La consapevolezza, cioè – e questo dovrebbe evitare, ma non sempre accade, che la politica sia una sorta di tribuna offerta agli smargiassi di turno – della distanza sempre incolmabile che corre tra le competenze di ognuno e la dimensione illimitata del compito cui assolvere.
Peraltro, il partito, concepito come organo e strumento della partecipazione democratica, impone comportamenti, atti e determinazioni che esercitano una forte e diretta incidenza sulla vita della collettività, in termini ben più stringenti di quanto non attenga ad un impegno culturale, sia pure, a sua volta, capace di insistere sul vissuto complessivo della comunità, ma secondo una latenza temporale ed una ricaduta che non hanno paragoni con l’immediatezza dell’azione politica.
Ed, infine, va pur detto che, per quanto la politica attiva sia il luogo dell’opinabile, nella sua dimensione più vera non può fondarsi sul relativismo del pensiero debole, ma deve rispettare un rapporto autentico con la verità degle eventi e della storia.
Se così non fosse, come potrebbe la politica essere l’espressione più alta della carità, come ci insegna Paolo VI ?
Insomma, la militanza politica merita attenzione e rispetto per la dignità intrinseca che le appartiene.
Non a caso, del resto, se appena si conosce dall’interno la vita di un partito, si sa bene come vi possano e vi debbano convivere, alla pari, il grande intellettuale, il professionista illustre e la persona culturalmente più umile. Con il che non è affatto escluso – anzi, si verifica più spesso di quanto non si creda – che sia quest’ultima, in forza di un’esperienza vissuta che trascende ogni più o meno brillante teorizzazione, a formulare le valutazioni politiche più penetranti.
Domenico Galbiati