“Razionalismo in politica e altri saggi” di Michael Joseph Oakeshott (a cura di Giovanni Giorgini, IBL Libri) andrebbe suggerito a tutti coloro che, incautamente e mossi dalle migliori intenzioni, si fanno paladini delle cause più nobili, certi di avere generato e custodita nella propria mente la soluzione ai drammi dell’umanità. Anzi, ai loro occhi, la cifra stessa della superiorità della loro ricetta sarebbe nel fatto che sia stata generata e ora custodita nella loro testa, mentre è proprio tale condizione che rivela, per dirla con le parole di Friedrich A. von Hayek, la loro “presunzione fatale” e l’unibilità di quella soluzione.

Potrebbe essere questa una breve sintesi della critica che il filosofo della politica britannico Oakeshott muove al razionalismo politico, da Platone fino ai nostri giorni. L’opera in questione è un caposaldo della filosofia politica contemporanea e venne pubblicata nel 1962 quando insegnava Scienza politica, presso la London School of Economics di Londra; la sede del fabianesimo aveva accettato, non senza resistenze, che la cattedra di Scienza politica fosse affidata ad un conclamato – per quanto anomalo – conservatore, il quale si presentò alla prestigiosa istituzione, tempio del riformismo, con una lezione inaugurale dedicata all’educazione politica, in occasione della quale affermò: «uno scettico; uno che vorrebbe fare meglio se solo sapesse come».

Al cuore del volume abbiamo il problema del razionalismo in politica, dove per razionalismo, afferma Giovanni Giorgini che ha firmato un denso e brillante saggio introduttivo, Oakeshoot intende la fede incondizionata nel fatto che «l’uso senza vincoli e senza pregiudizi della ragione porterà a un sicuro miglioramento della condizione umana». Tale uso e abuso della ragione sarebbero alla base di una concezione della politica di tipo “perfettista” che intende possibile la realizzazione del paradiso in terra, non accorgendosi di star edificando «un molto rispettabile inferno», per citare il drammaturgo francese Paul Claudel.

Alla base della critica di Oakeshoot al razionalismo politico troviamo la ricerca della perfezione, in base alla quale è “razionale” solo la condotta orientata al raggiungimento di uno scopo, i cui caratteri sono formulati in maniera preventiva ed astraendo dalle circostanze particolari. È questa, per il Nostro, una via illusoria pericolosissima, dal momento che porterà al controllo sull’intera società e all’instaurazione della tirannide, come imprescindibile fase di passaggio tra la realtà e l’utopia. Forti sono i richiami all’illuminismo scozzese e da questo all’analisi epistemologica di Carl Menger, proseguita da Ludwig von Mises e dal già citato Hayek.

Ciò che emerge dalla lettura di tali saggi sembra essere l’individuazione di un idealtipo della politica liberale, intesa come alternativa inconciliabile alla prospettiva puritana e giacobina, sempre alla ricerca della verità e della perfezione da imporre agli altri con lo zelo delle lacrime e del sangue. L’idealtipo che delinea il nostro autore sviluppa una prospettiva nella quale l’autorità politica nascerebbe da una perenne dualità che oscilla tra “individualismo” e “collettivismo”, “scetticismo” e “fede”, modellando un prisma che consente all’osservatore di visitare l’oggetto d’indagine sotto diverse angolature: morale, politica, storica, e di constatare che la cifra liberale di tale autorità risiede nell’effettività che il governo svolga la funzione di custode della “rule of law”, piuttosto che di attuatore di un compito che solo pretenziosamente la cosiddetta “classe politica” o “élite” può spacciare come “bene comune”, mentre più prosaicamente si tratterebbe dell’interesse della cricca momentaneamente al potere. Qui risiede il segreto del buon governo: un “grande potere” per evitare che il pluralismo si trasformi in anarchia – a tal proposito sarebbe interessante l’analisi comparativa con il dualismo e la plurarchia sturziani – e uno “scopo limitato” che consiste nell’essere il custode della “rule of law” (ruler) e non il pastore del gregge (leader); una sorta di “corridoio della libertà”, direbbero Daron Acemoglu e James Robinson; in tal senso, la chiarezza di Oakeshoot è inequivocabile: «il governo è come l’aglio in cucina, dovrebbe essere usato con tale discrezione da notare solo la sua assenza».

Flavio Felice

 

Pubblicato su Avvenire e ripreso su gentile concessione dell’autore

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