L’Occidente si identifica con la democrazia liberale, ritenuta la tipologia istituzionale universale da proporre ed eventualmente imporre al mondo intero. Nel linguaggio comune, si parla sic et simpliciter di democrazia come sinonimo di liberaldemocrazia, nella convinzione che quest’ultima sia la sola forma che può assumere la prima.
In realtà, democrazia e liberaldemocrazia non sono la stessa cosa. Aggiungere aggettivi al termine democrazia (liberale, socialista, popolare, autoritaria, illiberale, ecc,) non ne rafforza il concetto, ma piuttosto lo limita e talora lo stravolge, come è emerso dall’esperienza delle democrazie popolari negli Stati del blocco sovietico.
Quali sono i caratteri della democrazia non aggettivata, che più che una realtà rappresenta un obiettivo per i democratici?
Partiamo dal significato etimologico: “crazia” ovvero potere; “demos” originariamente indicava una piccola unità territoriale, ma poi ha preso a significare il popolo e più precisamente i ceti popolari.
Quale è il contrario della democrazia, quale il suo nemico? Non tanto la monarchia e neppure la tirannia, perché la democrazia si è affermata contro l’oligarchia, e da questa si è sempre sentita minacciata (ciò che vale anche oggi).
Connaturata all’idea di democrazia, c’è quella di eguaglianza, in primo luogo politica, poi economico-sociale. L’eguaglianza rivendicata non si spinge fino all’egualitarismo, ma richiede che le differenze economiche siano contenute pur riconoscendo il merito. Ad esempio, Adriano Olivetti, non certo un egualitario, nelle sue aziende imponeva che nessun dirigente, neanche il più alto in grado, dovesse guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minino. Infatti, quando le distanze diventano molto rilevanti (come accade oggi), viene meno ogni senso di appartenenza a una comunità perché i membri della classe dei ricchi e soprattutto dei ricchissimi vivono separati dalle gente comune per i luoghi che abitano e che frequentano, per le modalità di vita, per i riferimenti valoriali e culturali. Inoltre, il loro peso, o la loro influenza su chi esercita il potere decisionale è enormemente maggiore rispetto a quello dei semplici cittadini.
La democrazia presuppone la partecipazione dei cittadini alla costruzione e gestione dell’edificio comunitario in vista del bene comune, e concepisce la libertà (prima del diritto di disporre di sé nel privato) come la possibilità data a tutti i cittadini di prendere parte agli affari pubblici e di decidere quanto più possibile su ciò che li riguarda in questo ambito.
Democrazia è partecipazione, ma questa non si traduce nella sola facoltà del cittadino di porre un voto su una scheda elettorale ogni tot anni per poi mettersi da parte. Anche se oggi la democrazia diretta non è proponibile, la democrazia partecipativa, pur salvaguardando il ruolo delle assemblee elette e degli organi di governo da queste espressi, li integra con strumenti vari: referendum, potenziamento delle autonomie locali e decentramento che avvicina i centri decisionali ai cittadini, sussidiarietà, concertazione con i corpi intermedi, dialogo con le varie associazioni di cittadini.
Ha scritto Yves Mény (noto studioso dei sistemi istituzionali): “Il principio della rappresentanza e quello del potere popolare sono i due pilastri della democrazia, ma oggi il punto di equilibrio tra questi due principi si sta allontanando troppo dalla fonte della legittimità, cioè dal popolo. Così, si diffonde una concezione distorta della democrazia, poiché la ricerca di un più diretto coinvolgimento dei cittadini rappresenta una questione centrale per qualsiasi democrazia”. Oggi, infatti, si tende a dare più importanza agli aspetti formali della democrazia piuttosto che alla sua sostanza.
La prioritaria attenzione posta alle forme, alle procedure, agli equilibri tra i poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), e alle varie tavole dei diritti appartiene essenzialmente al liberalismo, mentre, in democrazia, è la sostanza a contare di più, in quanto ogni potere, ogni tavola valoriale riposa sulla volontà popolare. Tanto più ciò va affermato in una società sempre più giuridificata (come ebbe a dire Luciano Violante), in cui l’equilibrio tra i poteri è stato rotto per lo straripare di tutto quanto si richiama al mondo giudiziario. Infatti il liberalismo sottomette la politica alla potestà dei giudici e affida a valutazioni e ad arbitrati di ordine giuridico tutto ciò che riguarda le scelte politiche, condizionando l’esercizio della vita democratica. Inoltre, introduce e promuove sempre nuovi diritti civili, ma come ha scritto Francis Fukuyama, questi sono realizzati a spese della comunità, indebolendo il capitale sociale (quell’insieme di fattori che tiene insieme la società). Dal primato assoluto dei diritti di ciascun individuo, discende, per la politica, l’impossibilità di prendere decisioni in nome della collettività.
Il mercato esiste da tempo immemorabile, così come la moneta. La società democratica non li mette in discussione, ma certo non crede nelle virtù illimitate di un mercato supposto autoregolato e capace di dare sempre risposte alle necessità dei cittadini, ridotti alla sola dimensione del consumatore. In democrazia, la politica viene prima dell’economia in quanto non si può accettare che, in nome di quest’ultima, vengano annientati tutti gli ostacoli (sociali, ambientali e culturali) alla trasformazione del pianeta in un supermercato. Inoltre, si corre il pericolo che una concorrenza sempre più spinta ed estesa, prodotta dalla globalizzazione, induca ad una lotta di tutti conto tutti incompatibile con l’esistenza di una comunità democratica. L’economia è per l’uomo e non l’uomo per l’economia.
La democrazia si costruisce attorno ai concetti di cittadinanza e di sovranità. Infatti essere cittadino presuppone l’esistenza di una istituzione, una comunità politica, a cui appartenere: la polis, il Comune, la nazione, lo Stato (nazionale o federale). Ognuna di esse richiede un territorio sul quale il popolo, tramite gli organi di governo da lui espressi, esercita la propria sovranità. Il dissolversi dei confini e la perdita di sovranità sono incompatibili con la democrazia.
La democrazia pura, non aggettivata, è una forma ideale a cui i democratici tendono. Tuttavia occorre aver ben presente che la perfezione non esiste nel mondo reale. Come ogni cosa, anche la democrazia non è una istituzione perfetta: presenta lati oscuri e punti deboli.
Nella Grecia antica, gran parte degli intellettuali (filosofi, storici, retori, poeti, commediografi) erano fortemente critici nei confronti della democrazia, adducendo motivazioni varie: affida il potere agli incompetenti; dà spazio alla demagogia; è tendenzialmente bellicista; ha espresso sovente dei tiranni, ecc. In tempi meno lontani, Alexis de Tocqueville, in La democrazia in America, descrive agli europei il cammino inarrestabile di tale forma istituzionale in un Paese ancora abbastanza egualitario (se si esclude il trattamento spietato e disumano riservato ai pellerossa e agli africani), mettendone in risalto, accanto agli aspetti positivi, quelli negativi e pericolosi. In particolare, si sofferma sui limiti alla libertà di pensiero a cui conduce la democrazia quando considera la voce della maggioranza (ovvero il principio di maggioranza) un criterio di verità, ciò che lo induce a parlare di “dittatura della maggioranza” (il termine totalitarismo all’epoca non era stato ancora coniato).
Si può quindi ipotizzare che l’incontro tra democrazia e liberalismo sia avvenuto proprio per correggere i difetti della democrazia pura, introducendovi dispositivi liberali in grado di far argine alle potenziali derive negative insite in essa. È quanto lo stesso Tocqueville auspicava.
Certo questa può essere l’intenzione, ma è difficile tenere insieme democrazia e liberalismo per le molte differenze che presentano, in particolare riguardo alle concezioni antropologiche sottese a tali forme di pensiero.
Per i democratici, l’uomo (in accordo con Aristotele) è un essere sociale che si realizza compiutamente solo nella “politica” intesa come relazione con quanti hanno un percorso di vita e un destino comune. Ogni uomo nasce in un contesto familiare, in uno sociale e nazionale, ed è parte di una comunità linguistica e culturale, un insieme da cui riceve un’impronta indelebile. Inoltre, fin dal concepimento, e per lungo tempo, ha costantemente bisogno delle cure e delle attenzioni di chi lo ha generato per crescere, maturare e diventare un soggetto.
Per il pensiero liberale attuale, al centro di tutto c’è l’individuo, immaginato come una monade senza sostanziali legami con gli altri, con un luogo d’origine e una cultura di appartenenza. Anzi considera ogni ancoraggio a tali riferimenti come un qualche cosa da cui l’individuo, fin dall’infanzia, deve essere liberato perché costituiscono limiti alla sua piena realizzazione. In materia, un ministro francese della Pubblica Istruzione (Vincent Peillon) arrivò a dire che “per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale”. Il protagonista del liberalismo è l’Homus oeconomicus tutto teso a soddisfare le proprie esigenze, sostanzialmente materiali, il cui egoismo tramite il mercato si risolverebbe a favore della società.
C’è tuttavia chi giustifica l’individualismo attuale, presentandolo come frutto di un adeguamento al mondo globale dove, con l’affermarsi del multiculturalismo, ciascuno rivendica uno stile di vita a propria misura senza conformarsi ad alcun modello esterno, peraltro sempre meno individuabile o riconoscibile.
Ma la democrazia è possibile solo se i cittadini condividono alcuni importanti valori, al di là della sola tolleranza. È fondamentale possedere una memoria condivisa e avere la consapevolezza di un destino comune. “Una società dura nel tempo, è erede del passato e prepara l’avvenire” recita il catechismo della Chiesa cattolica.
Teniamo presente che le società in cui è sorta e si è affermata la democrazia, come peraltro il liberalismo, erano omogenee sotto l’aspetto culturale, e dominate da un solo gruppo etnico e religioso. È ancora da verificare se le società ispirate ai valori democratici (e lo stesso vale per quelli liberali) potranno adattarsi e sopravvivere al multiculturalismo verso cui il mondo occidentale è incamminato, o se dovranno profondamente trasformarsi fino a diventare qualche cosa d’altro.
Comunque, dall’incompatibilità delle due concezioni antropologiche, discende l’impossibilità di mantenere un equilibrio stabile fra democrazia e liberalismo. Oggi, la liberaldemocrazia pone l’accento sulla componente liberale relegando ai margini quella democratica.
Come ci dobbiamo porre di fronte a questi fatti?
Per interrogarci su dove stiamo andando e che cosa vogliamo, in primo luogo bisogna fare chiarezza sul piano linguistico perché solo usando correttamente i termini si può aprire un confronto costruttivo. Poi, occorre guardare alla realtà senza occhiali ideologici. Tenere presente che ogni albero si giudica dai frutti che dà, e inoltre che l’albero rivelatosi migliore nella nostra esperienza non può fruttificare, e talora semplicemente vivere, in ogni terreno e in ogni clima. Ci sono ambienti con condizioni climatiche e pedologiche dove invece alberi di altro tipo possono vegetare bene ed essere più produttivi.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)