Chi sostiene la depenalizzazione del “suicidio assistito” in funzione ed in vista di una piena legalizzazione dell’eutanasia, si appella al principio di autodeterminazione, assumendolo come sinonimo di “libertà’”, senza nessun scarto tra i due concetti.
Ma è davvero così oppure rischiamo di capire in una trappola, mediata da un uso improprio del linguaggio?
Se per “autodeterminazione” intendiamo un decidere “da se’ e per se’”, cadiamo, per lo meno, in una concezione solipsistica – e, quindi, parziale ed incompiuta – di libertà.
Questa, infatti, non si esaurisce in un arroccamento autoreferenziale, ma può essere effettivamente esercitata solo in un contesto relazionale, essendo un atto della “persona”.
E’ effettivamente libero chi dovesse chiedere di porre fine ai propri giorni versando in una condizione di solitudine estrema che, sovrapponendosi alla sofferenza fisica, determina uno stato di insopportabile abbandono?
Fino a che punto non è piuttosto un contesto così restrittivo ad “etero-determinare” un orientamento che, più che invocare la morte, constata come sia sostanzialmente già sopraggiunta nella forma di una radicale desertificazione del proprio vissuto?
E poiché la politica ha, anzitutto, il compito di garantire a ciascuno le condizioni della propria libertà, non c’è qui, intanto, un compito che, a prescindere dai diversi orientamenti culturali, è comune nella organizzazione di servizi nel cui ambito questa relazione di prossimita’ affettiva, di ascolto e di condivisione sia ancora possibile?
Servizi, dunque, che potremmo chiamare di “garanzia di liberta” anche per chi versa in condizioni di difficolta’ estrema eppure, anziche’ “scartato”, va mantenuto nel nostro comune consorzio umano?
Non dovrebbero anche le forze “libertarie” trovare qui le ragioni del loro impegno per affermare il valore della liberta’ e della vita piuttosto che cadere in una spirale dominata da un’idea di morte e, cioè, in ogni caso, segnata da un sentimento di rassegnazione e di sconfitta?
Non c’è il diritto di morire. Non lo prevede la nostra Costituzione, ma, ancor prima, in nessun modo lo contempla il comune sentire dell’animo umano.
Anzi, l’ apprezzamento del valore della vita, della vita accolta, da chi crede e da chi non crede, come dono, secondo un sentimento di gratitudine e di pienezza, costituisce un’esperienza spontanea ed universale,una conoscenza pre-categoriale originaria cui nessuno sfugge.
Un indirizzo di altro segno, un orientamento verso soluzioni di morte è la testimonianza di un tarlo che rode la nostra tarda modernità e da cui dovrebbero guardarsi soprattutto le culture e le forze politiche che si fanno carico di una rappresentanza popolare.
Domenico Galbiati
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