“……il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da ogni vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni”. Lo afferma Benedetto XVI che aggiunge come:”……(nel relativismo etico) alcuni vedono addirittura una delle condizioni principali della democrazia, perché il relativismo garantirebbe la tolleranza ed il rispetto reciproco delle persone”. Ne consegue che “avere una fede chiara….viene spesso etichettato come fondamentalismo”.
Si tratta non solo di un orientamento del pensiero, riservato alle élite intellettuali, ma pure di orientamento dei costumi, assunti quasi per osmosi, cioè in modo irriflesso, eppure pervasivo e diffuso, per contatto; anche qui una sorta di contagio. Avanza, in modo carsico, quasi senza che la avvertiamo, la convinzione, ad esempio, che tutto ciò che è tecnicamente fattibile, sia – per ciò stesso, senza la necessità di un vero discernimento – eticamente lecito.
Senonché, questo vuol dire porre le premesse di una devastante alienazione, tale per cui la legittimità dei nostri atteggiamenti risiederebbe nella potenza in sé della tecnica, piuttosto che nella personale capacità critica, nell’interiorità della coscienza di ognuno.
Tutto ciò si riverbera anche sul piano politico, dove, non a caso, la parola “identità” è recepita spesso con fastidio, con il sospetto che, al solo pronunciarla, si vorrebbe invadere la coscienza altrui ed imprigionarne la libertà in una gabbia dogmatica. Purtroppo, si tratta di un indirizzo che invade anche il campo cattolico che, ovviamente, per esserne parte attiva, non può che vivere nel momento storico contingente, accostandone ed, anzi, assorbendone la “cifra”; salvo poi saperla declinare criticamente.
Al contrario, chi fra noi pensa ad una presenza “autonoma”, laica, aconfessionale, aperta a tutti gli uomini di buona volontà, che, cioè, siano attenti – anche coloro che non hanno ricevuto il dono della fede – alla densità dei valori umani in gioco, in una fase storica comunque straordinaria come la nostra, non può sfuggire a questo modo tematico.
L’ “autonomia” – che di per sé, ricercata oggi, nel segno dell’ispirazione cristiana, rinvia necessariamente al concetto di “liberi e forti” di sturziana memoria, fin quasi ad esserne un sinonimo – esige un’ “identità”, un “ubi consistam” certo, di principi, di valori, di criteri fondati su quella verità dell’uomo che la fede ci trasmette ed è “stabile”, non muta, non risponde a quel volatile, aleatorio, occasionale “vento di dottrina” che ci spinge ora qui, ora là.
Di quale “identita'” – e, dunque, di quale “autonomia” – parliamo, se dev’essere in grado di tradurre valori metastorici, che non mutano, anzi trascendono il tempo e lo spazio della contingenza, senza smarrirne la forza, dentro la mutevolezza, il costante divenire, spesso imprevedibile, sorprendente, incalzante degli eventi che semplicemente “accadono” al di fuori di ogni nostro possibile controllo come sta succedendo con la pandemia?
A grandi linee, ci sono almeno due declinazioni possibili: da un lato una “identità” rivendicata orgogliosamente, arroccata su di sé, che, nella sua apparente e metallica attestazione, di fatto tradisce un atteggiamento difensivo, come fosse assediata da forze, nei cui confronti non può articolare un qualche confronto aperto, perché avverte – sia pure in modo oscuro, senza confessarlo neppure a sé stessa – che ciò basterebbe a far vacillare il suo impianto.
Talvolta, una certa iattanza, proclamata con toni stentorei, altro non è che un manto steso pietosamente su una precarietà di fondo.
Un’altra forma di “identita'” sa di essere sicura di sé e tale si mostra; non teme di confrontarsi con il “mondo”, si mette in ascolto, addirittura lo incalza, non si fa imporre il gioco sulla difensiva ed, anzi, ricerca e riconosce quei segmenti di verità che si rintracciano in altre culture, in altre dottrine e li assume come banco di prova di un possibile tratta di cammino comune.
Non si tratta di una “identità” sicuritaria , autoconsolatoria, una sorta di esoscheletro che sostiene, dall’esterno, una intrinseca insicurezza, ma piuttosto di una “identità” fraternamente solidale, percorsa da quel sentimento di carità cristiana, in cui prende plasticamente forma la certezza di attingere ad una verità che non ha bisogno di essere esibita ostentatamente a mo’di stendardo.
Potrà sembrare del tutto improbabile, eppure la politica in questa connessione tra, come sosteneva Mino Martinazzoli, l’ “universalismo” della religione e la “particolarità” della politica, ha un importante ruolo da giocare, quasi di tipo maieutico. L’ “autonomia” politica dei cattolici, in sostanza, non è un banale gioco a smarcarsi da questo o quello schieramento, ma, anzitutto, il portato di un impegno etico, culturale e politico, capace di andare controvento, pur di tradurre, anche sul piano civile e politico, quel più di ricchezza umana e di profezia che è connaturato al messaggio cristiano.
Domenico Galbiati