D’istinto verrebbe da dire: se è intelligenza, non è artificiale; se è artificiale, non è intelligenza. L’ “Intelligenza Artificiale ” irrompe e si impone al discorso pubblico, anzi alle nostre vite. Solleva questioni etiche, domande di ordine morale, interpella la cultura, provoca la riflessione antropologica e la comprensione che abbiamo di noi stessi, sollecita nuovi scenari sociali, apre prospettive storiche che fatichiamo a comprendere.

In altri termini, pone alla stessa politica, fin d’ora, provocazioni e sfide che non possiamo aggirare. Nel contempo, nelle fessure di quell’ entusiasmo, di quel sentimento di stupefatta ammirazione, con cui guardiamo al portento dell’IA, è come se affiorasse – sia pure senza che emerga espressamente alla coscienza – una sorta di timore ancestrale. Come se il robot, per un verso, ci minacciasse. Come se potesse rubarci, un pezzo dopo l’ altro, una meraviglia dopo l’ altra, la nostra umanità o ci costringesse a farci i conti come mai è successo finora.

Non a caso, il tema dirimente che sottilmente inquieta è se mai, un giorno, le macchine – cosiddette “pensanti” – potrnano sviluppare una coscienza. Oppure, mimarla a tal punto da indurci a pensare che, in fondo, il fatto di essere umani non sia poi cosa così straordinaria ed, anzi, banale, se possiamo da noi stessi replicarla. Peraltro, l’IA computa e descrive, mostra connessioni che noi non sappiamo cogliere, ma non immagina e non crea, dà solo quanto già le appartiene, secondo regole prestabilite e prescritte. Al contrario, l’ “intus legere”, il “nostro” intelletto, inferisce ed intuisce, soprattutto, letteralmente, legge tra le righe quel che non è scritto, scopre e crea quel che ancora non è dato.
La distanza è incolmabile, la differenza è ontologica.

Basterebbe chiederci: succederà mai che un robot – magari il più avanzato, l’ “organoide” di cui Stefano Zamagni ha parlato a San Patrignano – si innamori? O sia colto da un sentimento di insufficienza, da una oscura domanda di pienezza che invoca affetto ed amicizia oppure offra compassione? “Senta” crescere, spontaneamente, l’alea di una sim-patia, il bisogno e, ad un tempo, l’offerta a condividere, con altri da sé, un’intenzione comune, secondo un criterio di reciprocità e di mutuo sostegno? Giunga, addirittura, ad un rapporto di “empatia”, a quel “sentirsi dentro l’altro”? In altri termini, da oggetto si trasformi in “soggetto”, capace di relazioni, di scambi, appunto, “intersoggettivi”, che evocano la persona?

Ad ogni modo, no. Non succederà mai che un robot si innamori. E non succederà mai perché l’ “illimitato”, che possiamo pur concedere alle potenzialità del robot appartiene alla dimensione del “finito”, cui si può, ogni volta, senza limite, aggiungere un pezzo in più. Ma nulla ha a che vedere con l’ “infinito”. Ed, invece, l’innamoramento è, appunto, con quest’ ultimo che ha a che vedere. E’ la forma privilegiata di superamento di quel sottile, impalpabile confine che l’uomo, anche nella sua esperienza terrena, è in grado di superare quel tanto che gli consenta, misteriosamente, di ospitare nella sua finitudine, l’infinito. L’ aspirazione di cui è capace, irrinunciabile, costitutiva della sua trascendenza, dell’ essere fatto per andare, incessantemente, “oltre”.

Insomma, possiamo stare tranquilli: i robot non ci ruberanno la nostra umanità, ma piuttosto, questo sì, possono arricchirne le attribuzioni funzionali, attestandone, a maggior ragione, la ricchezza.

Domenico Galbiati

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