Certe espressioni semplici, d’uso comune eppure, quando collegate alla realtà, piene di significato, improvvisamente tornano inaspettate nella nostra sfera razionale per aiutarci, o meglio suggerirci sentimenti che stentiamo ad esprimere. Molto spesso perché non troviamo le parole giuste e pensiamo che alcune di esse siano troppo semplici, terra terra, indegne da essere impiegate in campo aperto, figurarsi da scriverle.

“Ma per carità” prende senso solo se la si colleghi ad un fatto, ovvero se la si pronunci con una certa intonazione. Un mio indimenticato maestro di tennis, il maestro Mario che mi piace ricordare per la sua costante, mai contraddetta, aderenza alla onestà intellettuale, era solito usarla questa espressione per riportare con i piedi per terra certe esplosioni di gioia collegate, tra i tennisti professionisti, a partite e tornei di poco conto.

Conteneva un invito a non farci prendere in giro da commentatori improvvisati e, forse, teleguidati, noi bisognosi di avere punti di riferimento saldi ed affidabili anche nello sport.

“Ma per carità” mi torna in mente, sempre più di frequente, quando ascolto i primi commenti a caldo dopo eventi elettorali d’ogni livello.

Cosciente del significato ammonitore della partecipazione popolare alle elezioni, con riguardo all’assenteismo, attestato intorno al 50%, voto più voto meno, mi aspetto che coalizioni e partiti vittoriosi esultino per un attimo, per aver vinto, e un minuto dopo, per rispetto del significato della volontà popolare espressa, in questo caso, nell’occasione elettorale, prendano coscienza e diano certezza del fatto che la loro cifra rappresentativa vale, a causa delle astensioni, intorno alla metà della percentuale conseguita. Insomma, che la loro capacità rappresentativa si attesta intorno al 25%, decimale in più, decimale in meno. Mi aspetto anche che coalizioni e partiti sconfitti prendano e diano atto di rappresentare, grosso modo un 20% degli aventi diritto al voto, un 20% del Paese.

La questione è complessa, affrontata in dottrina con toni semicatastrofici, demicatastrofici mutuando una felice, sarcastica definizione sturziana dei democristiani-demicristiani, talvolta analizzata su un fronte di riflessione assai impegnativo, quello del collegamento della crisi della democrazia con l’abolizione delle elezioni per salvare la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Qualcuno dirà, quasi lo sento, fai cattive letture. Può darsi, però questa citazione appartiene al patrimonio culturale di un importante intellettuale bellica, innamorato della democrazia. Ma pazienza, il rinnovamento democratico è un processo lento e tollerante.

Questione complessa, che non va affrontata in quattro parole. Con questo dimensionamento espressivo, al più, si può avanzare una riflessione alla buona. La seguente.

Si può dare fiducia ad un personale politico che pubblicamente, commentando elezioni alle quali ha partecipato meno della metà degli elettori, anche in Basilicata questo è successo, massicciamente e ossessivamente ripete il ritornello che è stato rieletto il presidente della regione perché ha operato bene, nell’interesse di tutti. L’elettorato lucano, per questo, dicono, ha voluto confermarlo.

Neanche una parola sul numero dei votanti. Neanche una parola sul cresciuto astensionismo. Ma per carità! Senza nessun polemismo di parte, giacché sono cosciente che in questo bipolarismo impoverito l’altro fronte s’è comportato e si sarebbe comportato allo stesso modo, rilevo che se l’elettorato avesse riconosciuto la bontà dell’operato del presidente uscente, si sarebbe riversato nelle aule scolastiche per partecipare in gran numero alle elezioni. Non ho simpatia per certo giornalismo inutilmente intransigente, a sua volta causidico e parziale, ma derivo la certezza che non è in torto quando afferma che quelli che vanno a votare, vuoi per un po’ di corruzione, vuoi per un po’ di seguito di interessi potenziali, vuoi per pressappochismo, vuoi per ignoranza, vuoi per abitudine, costituiscono la massa, forse esagero, la quota di manovra dei partiti, vecchi e nuovi.

Ma poi c’è la logica. Fino a che non sia soppressa per legge, la logica suggerisce di considerare che se aumenta il numero degli astensionisti l’unico significato plausibile è che essi non siano rimasti soddisfatti dell’operato della precedente legislatura/consiliatura.

Quindi, inutile che si rallegrino. La mancanza di partecipazione alle elezioni consuma, erode la partecipazione democratica.

Dicono, succede così anche in altri paesi di lunga tradizione democratica. Succede così, per esempio, negli Stati Uniti. È vero, alle presidenziali votano in pochi ma sui territori partecipano attivamente, sono organizzati e influenti gli americani, anche se la loro classe politica li ha ridotti ad andare a votare in pochi, pochissimi. La logica, impenitente resistente democratica, invita a non fare esempi sbagliati. L’unico successo democratico è quello basato sull’aumento del numero degli elettori. Cioè sull’aumento della rappresentatività delle istituzioni democratiche. A meno che non si voti in paesi come la Russia, il Nicaragua, il Venezuela e via comprimendo la democrazia. Ma per carità, non ci sarà mica personale politico italiano che confonda la democrazia con l’autocrazia?

Alessandro Diotallevi

 

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