In altri tempi, in anni ormai lontani, a proposito della violenza che accompagna le manifestazioni “no-vax”, giusto o sbagliato che fosse porre la questione in tal modo, ci si sarebbe chiesti: “a chi giova?”.

La domanda nasceva dal presupposto che ogni manifestazione di violenza, anziché nascere da una sorta di processo di autocombustione, fosse sempre dolosa, diretta e guidata ad un approdo predeterminato, cosicché bastasse risalire alla sua origine o meglio al “mandante”, al “Grande Vecchio”, chiunque fosse questo fantasmatico signore, piuttosto che osservarla da vicino, cercando di squadernarne tutte le pieghe. Avrebbe ancora senso chiederselo oggi? Francamente no. Le violenze di Roma non giovano a nessuno. Nuocciono a tutti.

Nuocciono a tutti perché destabilizzano e sconcertano, accrescono lo smarrimento, l’insicurezza, la paura, sentimenti che convergono in quello stato di allerta che rende oggi precaria e sofferta la vita di troppe persone e di interi ceti sociali. E’ come se vivessimo in uno stato di eretismo permanente, sovrastati da un timore incombente e indefinito, perciò tanto più fastidioso ed inquietante. Non giova a nessuno quel senso di abbandono e di solitudine che è legato, più di quanto siamo disposti a credere, ad una caduta di fiducia nelle istituzioni.

Siamo di fronte ad una violenza che corrompere, disgrega, sfarina il tessuto civile per cui se pure la destra o la sinistra – quale, poi, delle due? – dovesse ricamarci su un qualche vantaggio elettorale, sovrapposto ad un tessuto lacero e sfilacciato, nessun ricamo tiene o fa bella mostra di sé. Su queste pagine, il mese scorso, sulla scorta di un articolo di Massimo Molteni, contrario all’obbligo vaccinale, si è acceso un vivace dibattito che ha mostrato, su tale argomento, una feconda varietà di orientamenti, anche tra amici che si riconoscono nell’esperienza politica di INSIEME.

Si tratta di un tema su cui è opportuno tornare, anche da parte di chi nulla, ed esattamente nulla, condivide della posizione “no-vax”, dal momento che questa postura – e le teorie complottarde che la accompagnano – è comunque paradigmatica, al di là del merito della questione in oggetto. E’ istruttiva, in vista di processi e di eventi, connessi al fenomeno della globalizzazione, che sia pure in forme diverse dalla pandemia e su altri versanti tematici, potrebbero ripresentarsi.

E’ giusto, in sostanza, liquidare il movimento ”no-vax” in modo sprezzante, ascrivendolo ad una “ignoranza” che sicuramente fa la sua parte, ma, altrettanto certamente, non può esaurire in sé la questione? Occorre premettere una domanda: perché il movimento “no-vax” è così facilmente permeabile dalla violenza della destra estrema?
Per la capacità di quest’ultima di infettare e colonizzare tutto ciò che appena si lascia avvicinare oppure perché, strutturalmente, il movimento mostra un trip violento che, in un certo senso, chiama e calamita questa violenza che da fuori si aggiunge?

Eppure – e non sembri un paradosso – un merito va riconosciuto al movimento “no-vax”, sia pure a prescindere dai suoi convincimenti francamente inaccettabili. Il merito di farci riflettere come sia opportuno, anzi necessario non lasciarsi catturare ed assorbire da processi onniviri di omologazione che, accampando motivazioni scientifiche o sia pure vantandole del tutto legittimamente, inducono a cedere alle lusinghe del pensiero unico. Anche tale deriva, per quanto le apparenze ingannino, è, in definitiva, una forma di violenza, morbida, vellutata, suadente, ma non meno capace di alienare e distogliere da quella attitudine all’autonomia di giudizio che si conserva solo esercitandosi all’uso delle proprie, personali facoltà critiche.

Insomma, stiamo andando incontro ad una evoluzione della nostra vicenda storica tale per cui potremmo essere di frequente chiamati ad affrontare situazioni non risolvibili sul piano sistemico ed istituzionale, se non siano accompagnate da un coinvolgimento personale ed attivo, assistite e sostenute da un convincimento che i singoli cittadini facciano proprio, non solo sul piano cognitivo, ma “esistenziale”, davvero partecipato, “vissuto”.
In altri termini, oggi il luogo privilegiato in cui può avvenire la “composizione del conflitto”, non è o non è più solo la dialettica tra aggregati sociali portatori di contrastanti interessi, ma anzitutto la coscienza personale, morale e politica, in altri termini la responsabilità di ciascuno.

Per questo è di straordinaria importanza rimettere in campo una cultura politica – come quella propria del movimento cattolico democratico e popolare – che mantenga costantemente acceso il punto focale della propria attenzione sulla “persona”, piuttosto che sugli schemi astratti di una qualunque ideologia oppure, altrimenti, sugli algoritmi che presiedendo ad una involuzione tecnocratica della politica. Ci siamo già inoltrati in un mondo che mette a nudo ed interpella, senza siparietti o vie di fuga verso i confortevoli lidi di una responsabilità collettiva in cui stemperare la propria, la coscienza, lo spessore morale ed interiore di ciascuno.

E tutto ciò non ha nulla di intimistico, ma impatta duramente con la politica, nuda e cruda. Ciascuno di noi è libero di adottare l’uno o l’altro di due atteggiamenti. O funzioniamo come una lastra vitrea, piatta e priva di spessore, che riflette e rimbalza nell’ambiente che la circonda le mille sollecitazione, le contraddizioni che, senza sosta, la bersagliano, nell’affollato ring che ci ospita, oppure fungiamo da cuscinetto e da ammortizzatore che tali elementi di conflittualità li sa assorbire, li ospita, li metabolizza dentro lo spazio interiore della propria coscienza, tanto più accogliente quanto più ampio.

Nel primo caso non faremmo altro che concorrere ad infarcire la comunità di un tale cumulo di input incomponibili, da spingerla verso un punto critico, oltre il quale si innescherebbe – un po’ come in campo atomico, se la metafora regge – una “reazione a catena”, fatalmente destinata ad esitare in una esplosione incontrollata di energie distruttive.
Nel secondo caso dalla “ricomposizione” che ciascuno compone in sé stesso, può nascere, per un processo, ad un tempo, di osmosi e di progressivo accumulo, quella “mediazione alta” di cui non possiamo fare a meno, se ancora intendiamo “governare”, almeno fin dove possibile, il corso degli eventi piuttosto che subirli.

Domenico Galbiati

About Author