Il classico schema bipolare che, grazie alle leggi elettorali maggioritarie, ha tenuto banco da quasi trent’anni a questa parte ha largamente dimostrato di non aver nulla a che fare con il contesto storico e culturale, sociale e civile del nostro Paese. Coloro che scommettevano sull’avvento di una limpida stagione dell’alternanza, che significasse finalmente la piena maturazione della nostra democrazia incompiuta, sono stati beffardamente smentiti dalla politica, quella vera, che avviene sul campo e poco o nulla ha a che vedere con le astratte teorie distillate dai sacri tomi della più avanzata politologia.

Invece che verso un sistema politico tale per cui gli schieramenti in campo tendessero a convergere al centro, l’Italia è stata assorbita dentro un processo di divaricazione e di estremizzazione dei due poli, cui consegue – e vi assistiamo tuttora – una dialettica che si esaurisce in un muro contro muro che avvelena l’umore degli italiani e li allontana dalle urne.

Eppure, il 25 settembre ha segnato almeno un momento di parziale evoluzione di questo quadro. I due poli – anzitutto quello di sinistra che neppure è riuscito, di fatto, a consolidarsi nelle forme del cosiddetto “campo largo”, ma perfino la destra vincente e tripartita,  appaiono, infatti, sgranati. La votazione di Palazzo Madama, che ha eletto La Russa alla Presidenza della Camera Alta, in un certo senso, ha reso plasticamente l’immagine di una sorta di “continuum” che, passando anche attraverso il mitico “centro”, qualunque cosa sia, scorre da destra a sinistra e viceversa. Conte, non avendo di meglio, rivendica la medaglia di bronzo della competizione elettorale, cioè quella terza posizione che, sia pure sul gradino più basso, dà accesso podio, lasciando a Renzi e Calenda la cosiddetta medaglia di legno.

In effetti, la dizione di “terzo polo” – ed a questo è bene attenersi – identifica l’alleanza tra Italia Viva ed Azione, dal momento che, rispetto al dato quantitativo, vale piuttosto un criterio di funzionalità sistemica di una forza politica. A questo punto, si tratta di capire quale sia, come dire, l’auto-comprensione del “terzo polo”, cioè il ruolo che, al di là di quanto avviene in questa fase di impianto della legislatura, Renzi e Calenda, concordemente, intendono assegnare al loro movimento nella prospettiva dei prossimi anni, almeno per l’intero quinquennio – se tale sarà – della legislatura.

Senza cadere in un gioco di parole, si tratta di capire se e come il cosiddetto “terzo polo di centro”, intende investire sulla propria “terzietà” piuttosto che sulla “centralità”. Concepirsi come “centrali” in un sistema bipolare rissoso fino al punto di una sostanziale reciproca delegittimazione delle due parti, significa adattarsi ad un ruolo più tattico che non strategico. Si rischia di giocarsela sulla falsariga dei temi e degli argomenti che i due fronti si scambiano a palle incatenate, lucrando sulle faglie di frattura del sistema, ma sostanzialmente incaprettati in uno schema obbligato e scontato. Si tratta di un posizionamento che – per quanto non escluda, all’occorrenza, compiti di alta mediazione, né quella capacità di proposta autonoma che sicuramente è nelle corde di Calenda e di Renzi – più facilmente allude ad un possibile accostamento, sia pure occasionale e transeunte, all’una o all’altra delle due parti. Il tutto, d’altra parte, dentro un sistema che complessivamente, anche per la parte vincente, ha una connessione al paese reale parecchio problematica, come testimonia il vasto astensionismo, che pur tutti vorrebbero tacitamente scordare.

“Terzierà” significherebbe, al contrario, assunzione di una dislocazione “altra”, se non dichiaratamente alternativa, in un certo senso esterna alla cittadella murata del duopolio, capace di traguardare un orizzonte più largo e più avanzato, preoccupata, ad esempio, di concorrere a quel processo di rinnovata “coesione sociale” e di promozione di una nuova passione politica di cui abbiamo urgente bisogno. Del resto, tra le due, chiamiamole pure così, culture politiche prevalenti – il nazional-sovranismo populista da una parte, la declinazione tecnocratica della politica dall’altra – c’è uno spazio “popolare” inesplorato e sottaciuto, un ambito di sensibilità, abitato da soggetti socialmente attivi che non trovano audience né rappresentanza. Un mondo ancora attento ad una vocazione ideale della politica, aperto a valutarla soprattutto in ragione delle visioni prospettiche che sa o meno proporre, disponibile ad un impegno rinnovato purché diretto ad una reale “trasformazione” dell’Italia, orientato alla ricerca di una dimensione politica che adotti nuove categorie interpretative e, soprattutto, trovi nella moderazione la chiave di volta di un linguaggio che, anziché deturpare il volto della politica, ne riconosca e ne mostri il profilo più alto.

Domenico Galbiati

About Author