“…..la lotta politica è una cosa nobile, perché la politica è una delle attività più nobili della persona, per il bene comune, per far crescere la società, è nobilissima e i partiti ne sono gli strumenti”. A tal punto che: “Imporre la propria politica del partito, della società è un vero e proprio diritto”. Lo affermò Papa Francesco in una intervista concessa a Fabio Marchese Ragona, lo scorso anno.

In questo inizio dell’ anno nuovo, nel giorno che Paolo VI, cinquantacinque anni fa,  ha voluto dedicato alla pace, possiamo leggere queste parole come un incoraggiamento, anzi un invito, brusco, a non lavarcene le mani. E senza tanti convenevoli. Adottando lo strumento classico del partito politico. Certo, si tratta di discuterne la forma, adattandola al momento storico, ma la sostanza è pur sempre quella: si tratta di mettersi in gioco, in prima persona, secondo l’inveterato costume della “militanza politica”, accettando di stare in una partita in cui è la propria personale coscienza ad essere messa alla prova.

Soprattutto per coloro che hanno un alto concetto di sé e ci tengono, anche alla propria immagine ed al proprio prestigio. Senza tanti siparietti, senza la “pruderie” di chi teme – piuttosto farisaicamente – di compromettere l’immacolata immagine che coltiva di sé stesso, in un percorso di mediazioni o di compromessi che si devono pur mettere in conto, senza, peraltro, che ciò alteri il profilo etico del proprio impegno. L’analisi del dato sociale e la cultura, il pre-politico e la formazione delle coscienze: ottime cose, necessarie, indispensabili che, però, se devono essere orientate al “bene comune” bisogna che siano contestuali all’ impegno politico, diretto, esplicito. Non c’è un prima ed un dopo.

Un contenitore ideale pre-formato e poi , via via, segmenti di azione politica da deporvi graziosamente dentro.
La politica non è una disciplina accademica che si studia a tavolino. Si apprende “in re ipsa”, esercitandone dal vivo il compito e le funzioni. “Militanza politica” è un termine desueto, evocativo di scontri epocali, guidati da leader di straordinaria statura, sul terreno di visioni complessive della storia, combattuti senza esclusione di colpi, avanzando proposte e soluzioni politicamente contrastanti, perfino antitetiche. Eppure – qui il vero punto di forza di quella stagione – erano forze che, sia pure in cagnesco, si riconoscevano una comune radice popolare e, dunque, una reciproca legittimazione.

Oggi viviamo tutt’altra stagione, pallida e rissosa, esangue e confusa. Eppure “militanza” è una parola che deve conservare diritto di cittadinanza perché è tuttora severa ed esigente, allude al superamento del proprio solipsistico, carezzevole punto di vista, all’abbandono di quella orgogliosa autosufficienza di pensiero che spesso si traduce in un intellettualistico compiacimento di sé, paralizzante. Esige capacità d’ascolto, più di quanto non sembri a prima vista, l’umiltà necessaria, se del caso, a mutare avviso, ad intrecciare il proprio pensiero con quello altrui, in una reciproca fecondazione di idee, di intuizioni, di progetti.

Un partito non è una mera somma di soggettività distinte e singolari, va oltre la stessa mediazione e deve, piuttosto, attestare una collegialità, un concorso corale in cui al radicamento convinto in una visione condivisa a fondo ed effettivamente comune corrisponda una vasta articolazione di apporti. Vien da chiedersi come si collochi questo sostanziale “elogio della politica” pronunciato da Papa Francesco nel contesto di altre, più ricorrenti affermazioni che attestano la sua visione del mondo, degli sviluppi cui va incontro, del futuro possibile.

Il tema delle “periferie”; del degrado ambientale che documenta come “tutto si tiene”; l’impegno della “fratellanza” che intanto, più umilmente, prenda avvio da un sentimento di vicinanza; la consapevolezza, maturata nel tempo della pandemia, che nulla potrà essere più come prima, perché siamo tutti sulla stessa barca e, quindi, nessuno si salva da solo; il rifiuto della politica “dello scarto”. Dette così, estrapolate dai contesti che le hanno ospitate, fatte proprie dal linguaggio corrente, si tratta di affermazioni che sembrerebbero confinate nella dimensione di uno slogan.

Al contrario, sono squarci che consentono di cogliere il panorama complesso di un pensiero che prova ad inquadrare il nostro futuro. Come se fossero fili disposti sull’ordito di un telaio in attesa di una nuova cultura politica, di un “intelligenza” dei processi sociali in corso che li sappia comporre in una trama che dia conto di un possibile governo degli eventi. Del resto, è tempo che la politica, le forze che la interpretano, i suoi “strumenti”, come li chiama, appunto, Papa Francesco, cioè i partiti cerchino il riscatto, il loro stesso riscatto, l’inversione di una china di discredito su cui da troppo tempo scivolano.

In fondo, vien da chiedersi, non è forse vero che il giudizio severo che oggi la politica ed i partiti meritano dovrebbe, pur senza assolverli, tener conto che ad essi, più che ad altri soggetti civili, tocca affrontare in presa diretta, quel modo nuovo d’essere del nostro contesto sociale che, sbrigativamente, ascriviamo alla “complessità’”? E poiché per quanto ci illudiamo con ciò’ di aver detto tutto, in effetti non abbiamo affermato nulla, non è forse comprensibile che anche la politica ne sia frastornata ed ancora fatichi a costruire quelle nuove categorie interpretative indispensabili a ridarle il respiro che oggi ancora le manca?

Domenico Galbiati

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