La pace ci sta a cuore e, non a caso, INSIEME la richiama addirittura nel simbolo del partito, la pone come sintesi del suo impegno, approdo del suo progetto. Ma per quanto la pace sia nelle aspirazioni di tutti e sulla bocca di molti, non è fuori luogo chiederci se, quando parliamo di pace, intendiamo tutti la stessa cosa.

La pace esige un progetto politico diretto ad ottenerla e soprattutto preservarla nel tempo, sapendo che è un prodotto delicato, soggetto a scadenza, per quanto la confezione non ne precisi la data, un bene deperibile, che facilmente si corrompe, anche imprevedibilmente, pure quando si sia mantenuta talmente a lungo da illuderci che fosse acquisita se non per sempre, per un tempo storico indefinitamente protratto nel tempo.

Sta succedendo a noi, in Europa, nel cuore del vecchio continente, dal 24 febbraio di due anni or sono. Non è possibile immaginare che vi sia una “enclave” di pace, una nicchia, una sorta di bolla impermeabile al resto del mondo, capace di mantenere a distanza, fuori dal proprio orizzonte, le tensioni che la assediano, dentro un sistema multipolare di relazioni internazionali, che sono alla ricerca di un nuovo equilibrio che ancora non appare all’ orizzonte.

La pace è un bene universale e permanentemente “in fieri”, non è “qui” e neppure “la’”, se non è ovunque. Non è mai raggiunta una volta per tutte. E’, per sua natura, dinamica, fa tutt’uno con la ricerca incessante di un equilibrio che perennemente cammina sul fil di lama di un rasoio. Non c’è, non c’ è mai stata una “pax augustea”.

Al tempo in cui a Betlemme nacque il Signore, a Roma, in omaggio ad Augusto, si inneggiava al “toto orbe in pace composito”, eppure Gesù era un bambino che si avviava alla prima adolescenza, quando nell’ Urbe, vennero riaperte le porte del Tempio di Giano. “Polemos” è il motore della storia e la pace nulla ha a che fare con una mitica ed illusoria “Arcadia”. E’ piuttosto l’arte di saper governare l’ineliminabile conflitto, la capacità di impedire che cada nella violenza dello scontro bellico, ceda al furore cieco dell’Irrazionale. Piuttosto che alimentare, come dev’essere, una dialettica razionale e ragionevole, in una competizione che innalzi, anziché inabissarla, la coscienza della dignità del nostro essere umani.

La pace poco ha a che vedere con gli appelli e con le marce, con le invocazioni e le perorazioni, con i buoni e nobili sentimenti di chi la vive interiormente e, giustamente, vorrebbe vedere proiettato questo equilibrio personale ed intimo, addirittura sulla scena dell’ ordine mondiale. Ma non è così, il che non impedisce che la pace, fortunatamente non sia né un sogno né un’utopia, bensì un progetto storico concreto, possibile, perseguibile purché si sappia che la pace costa, ha un prezzo. Il prezzo che i Paesi abbienti devono pagare – e la cosa investe lo stile di vita di ognuno – in quanto a giustizia ai Paesi poveri, tanto per cominciare.

Noi europei, in modo particolare, siamo largamente vissuti a credìto ed ora giunge, irrevocabile, il momento in cui ci e’ chiesto di rientrare dal debito. E la cosa non si risolve con le giaculatorie.

Domenico Galbiati

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