Nell’ultimo quindicennio, la critica al valore delle grandi opere di ingegneria civile ha rappresentato un tema nevralgico nei dibattiti sulla scala delle infrastrutture (principalmente quelle di trasporto). Nel nostro Paese in modo più accentuato che altrove, ma non solo nel nostro Paese, si sono sviluppati dubbi radicali non tanto attorno alla categoria di “retificazione” intensiva ed estensiva del territorio, quanto intorno all’entità attesa (che ci si aspetta più circoscritta e meno cosmopolita) delle progettazioni. “Piccolo è bello” è significato – sotto questo profilo – la forte e diffusa ostilità verso opere di scala maggiore e l’illusione di poter basare un nuovo modello di crescita economica su una miriade di opere minori distribuite sul territorio.

Con questa tendenza culturale e politica si sono spesso fuse posizioni NIMBY, sovente assunte da minoranze ristrette – sebbene rumorose – permeate di concezioni sociali premoderne e antindustriali.

Su questa scia, si è fatto strada un diverso modo di percepire i problemi, di orientare le strategie e i piani. Sicché i processi di infrastrutturazione del territorio oggi tendono a concentrarsi prevalentemente sugli interventi di rango medio-piccolo.

Quello descritto, però, non è un processo indolore. A parte i dubbi che le moderne reti possano effettivamente svilupparsi secondo questa strategia cumulativa e molecolare, un rischio concreto è quello di abbassare lo standard delle risorse cognitive incorporate nelle scelte, di spezzare quindi il nesso vitale infrastrutture – innovazione, di produrre pesanti esternalità negative generate della dispersione degli interventi e – in fine – di miniaturizzare l’output finale.

Se si assume il parametro della “connettività di sistema”, la domanda pubblica deve invece formarsi entro scenari “estremi”, per certi versi “iperbolici”, onde sviluppare anche nuove polarità per altrettanto nuovi inserimenti strutturali. Nella cultura (politica e tecnica) italiana, l’ipotesi di un massiccio programma di infrastrutturazione risale ormai a un tempo lontano: al Progetto ‘80 e al Piano generale  trasporti del 1986. Contributi di indubbio valore ma privi entrambi della legittimazione culturale e politica necessaria. Laddove da questi contributi si dovevano generare approfondimenti e visioni di assetto “in divenire” e verticali, ciò non è accaduto. Viceversa si è imboccato il percorso del contenimento degli interventi entro soglie dimensionali che, tranno pochissime eccezioni (TAV, MOSE) si sono rivelate sottocritiche.

L’attenzione della politica si è altresì incentrata sugli aspetti di governance di sistema, sugli aspetti amministrativi e finanziari: quante polemiche sulla legge-obiettivo, sul rapporto Sato-Regioni, sulla Conferenza dei servizi, sul conflitto di competenze MIT-Presidenza del Consiglio, sul debat publique, da ultimo sull’Analisi Costi Benefici che, detto en passan, è strumento di programmazione e progettazione e non di pianificazione, ecc.! L’effetto finale: una sorta di smaterializzazione del connotato fisico dell’infrastruttura.

A conclusione di questa lunga storia, ci ritroviamo con tre risultati:

  • grave impoverimento di competenze tecniche sperimentate sul campo
  • strabordante prevalenza dell’innovazione di processo su quella di prodotto e, soprattutto
  • stato di emergenza tecnica di una quota consistente dello stock infrastrutturale lineare

Il programma della nuova forza politica – in materia infrastrutturale – si caratterizza per un’ unica e preliminare indicazione di strategia e di metodo:

  • rovesciare la prospettiva affermatasi dagli anni ’90 in avanti attraverso una ridefinizione del quadro strategico delle politiche infrastrutturali del Paese, secondo forme predittive e/o prospettiche. In particolare si sottolinea l’urgenza che gli scenari di riferimento rinviino a un orizzonte a lungo termine, al livello delle conoscenze tecnologiche più avanzate e si intreccino con la revisione  complessiva del dimensionamento degli interventi commisurato a esigenze di concentrazione e potenziamento.

Solo su questa base culturale e metodologica potrà avviarsi un programma (adeguatamente finanziato) di rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture e di rafforzamento tecnico delle strutture amministrative deputate alla sua implementazione.

Enrico Seta Giovanni Lucarelli

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