L’epidemia, ormai è chiaro, rappresenta un evento globale di prima grandezza destinato a pesare in maniera considerevole sui futuri assetti.

E’ ancora presto per valutarne gli effetti sulla superpotenza americana, e – in termini più ampi – su quello che viene denominato oggi il “nuovo ordine mondiale”, ma è comunque evidente che

  1. gli equilibri europei sono in corso di rapida e tumultuosa revisione;
  2. un evento di tale natura è molto difficile possa non avere impatto al di là dell’Oceano.

L’UE rischia di uscire dalle sfide dei prossimi mesi senza più neanche quel residuo di credibilità che ancora conservava dopo le pessime prove che tutte le sue istituzioni (tranne, forse la BCE di Draghi) avevano dato a confronto con la crisi finanziaria del 2007-2008.

Il tema europeo per la sua centralità culturale e strategica – e per le conseguenze immediate sui destini di una nazione gravata da uno stock di debito pubblico rilevante – merita di essere messo al centro di una speciale considerazione da parte di tutti coloro i quali mirano ad avere un ruolo politico nel futuro del nostro paese. E’ evidente, infatti, che la retorica europeista non sarà più spendibile e questa circostanza lascerà prive di copertura una serie di espressioni politiche che su tale retorica hanno pigramente fatto affidamento.

Ma ciò che più dovrebbe stimolare il nostro interesse – a mio parere – sono i destini dell’altro polo, quello cosiddetto “sovranista” di cui fa parte un certo discorso politico non privo di rozze semplificazioni e propaganda, ma al quale sono state ascritte (volenti o nolenti) anche voci tutt’altro che ingenue o rozze, ma semplicemente più consapevoli – culturalmente, storicamente e tecnicamente – dei gravi limiti oggettivi della costruzione europea, come quella dell’ex Ministro Savona.

Al sovranismo, rispetto all’esangue europeismo di maniera, va riconosciuto  il merito di aver visto con lucidità un pezzo importante di realtà: la non neutralità dell’euro e di buona parte dei meccanismi regolatori comunitari; la mancata convergenza fra le economie dei Paesi UE, che rappresentava invece  la principale promessa dell’unione monetaria; la sopravvivenza (e anzi il rafforzamento) del peso specifico dei nazionalismi che avveniva al riparo – anzi dietro la maschera – della rinuncia a spazi di sovranità; la mancanza di ogni spirito di solidarietà (vedi questione migratoria). Oggi, di fronte al risorgente protezionismo addirittura sulle mascherine, tutto ciò si riconnette facilmente in un quadro (ahimè) del tutto coerente.

Ma al sovranismo è completamente mancata un’altra parte del discorso, altrettanto e forse ancora più importante: un’idea ricca e realistica della nostra identità nazionale.

Temo che sarà proprio il coronavirus a produrre uno di quei bruschi risvegli che ha periodicamente traumatizzato (e allo stesso tempo fatto maturare) la nostra autoconsapevolezza, come ci insegna da tanti anni uno storico di spessore come Galli Della Loggia e come ci raccontò magistralmente il Salvatore Satta del “De profundis”.

E se oggi – di fronte alla vera e propria tragedia nazionale che l’epidemia rischia di generare – i nostri cosiddetti “sovranisti” non trovano niente di meglio da fare che unire le loro voci al coro dei politici improvvisati che le strane circostanze degli ultimi 2 anni hanno portato alla guida delle massime istituzioni di governo, il motivo, a mio parere, risiede proprio nella scarsa consapevolezza sullo stato reale del Paese che accomuna ormai tutto il fronte politico.

Alcuni spunti di riflessione:

  • l’Italia non può essere modello per nessuno in questa vicenda poiché ha il più alto numero di contagi (e soprattutto di morti) fra tutti i Paesi ad essa comparabili. Detto per inciso, questo semplice ed evidente dato non ha ancora suscitato la domanda di una seria e approfondita indagine sulle sue cause (come sarebbe accaduto dappertutto, tranne che in Cina), ma anzi è talmente annullato nella coscienza collettiva che ancora oggi i “politici per caso” che ci guidano continuano a proporre – senza alcun senso dell’opportunità – il cliché del modello da esportare;
  • il nostro sistema sanitario non può essere propagandato come uno dei migliori al mondo perché ad impedirlo sono sufficienti due semplici condizioni: aver messo piede negli ultimi anni in una delle tante strutture fatiscenti diffuse su tutto il nostro territorio ed essere assistititi da un minimo di onestà intellettuale. Il nostro sistema sanitario è solo una risultante – così come il nostro sistema scolastico, la nostra giustizia, la nostra PA, ma anche il nostro sistema di relazioni industriali, il nostro stesso sistema produttivo, ecc. – di una profonda, prolungata e gravissima crisi dello stato;
  • nel Paese non funziona più nessuna catena decisionale. Il Ponte Morandi non è una prova del nostro genio o della nostra compattezza, ma esattamente all’opposto: del fatto che per fare qualunque cosa (anche un semplice ponte stradale) ormai i poteri pubblici devono autosospendersi e mettere tra parentesi le proprie regole. E la magistratura (normalmente così attenta nella preservazione dei propri spazi corporativi di potere) rinunciare a fare il suo arbitraggio finale, per semplice paura di subire una reazione di rigetto. Queste circostanze non si stanno – purtroppo – verificando nella gestione dell’epidemia e quindi accade che si produca immediatamente il conflitto fra lo Stato e la Regione guidata, fra l’altro – colmo delle contraddizioni – dai nuovi sovranisti (ex iper autonomisti!);
  • ciò che invece sopravvive in Italia, perché davvero elemento profondo, cioè coerente con la sua storia millenaria, è ciò che ancora una volta sta emergendo in questa tragica vicenda: una radicata fede nei valori della persona e della vita. Il substrato cattolico e umanistico del Paese – e non i valori civili (ormai fortemente erosi) del sistema sanitario pubblico – è all’origine dei mille e mille episodi di generosità e di altruismo e quindi di tenuta della comunità nazionale. E’ solo da qui che dovremo ripartire se e quando il nuovo 8 settembre si sarà consumato.

E’ un discorso difficile, certo, ma è l’unico su cui è possibile costruire qualcosa di solido. E’ molto difficile accogliere nella sua profondità la lezione del genio di Dostoevskij che – in presa diretta – denunciava come il Risorgimento rischiasse di portare l’Italia dall’essere la prima potenza culturale e spirituale del mondo al rango dell’ultimo degli staterelli.

Ciò che il genio prefigurava oltre 150 anni fa oggi può essere rimeditato e forse compreso anche da noi: non è possibile per noi – frutto di uno sviluppo storico così originale e irripetibile – competere con gli altri su un terreno che è posto e delimitato sempre da altri.

Solo una riflessione seria sulla nostra identità, sui suoi punti deboli (non superabili in termini volontaristici o con fughe sovraniste) e sui suoi straordinari punti forti può offrirci il terreno solido sul quale ritrovarci uniti come comunità.

Solo una comprensione profonda della nostra identità – della sua sofisticatissima stratificazione storica e della sua “vulnerabilità” – potrà farci capire quale ruolo possiamo svolgere in un mondo che fa invece della piattezza e della “resilienza” le sue bandiere e quindi consentirci di delimitare noi i terreni di confronto.

Se riusciremo a farlo – e i cattolici italiani hanno riserve culturali ed etiche per farlo – l’amara medicina del coronavirus non sarà stata inutile.

Enrico Seta

About Author