Introduzione. – Quando ero giovane studioso di diritto penale pubblicai alcuni scritti in cui lamentavo la scarsa attenzione che la magistratura inquirente dedicava all’applicazione delle disposizioni penali che punivano lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione. Queste norme erano scaturite dall’ampio dibattito politico e parlamentare che aveva condotto all’abolizione del regime di gestione semipubblicistico della prostituzione. Alla testa della battaglia contro lo sfruttamento pubblico fu la senatrice socialista Lina (Angelina) Merlin (1887-1979), ammirevole avvocata dei diritti delle donne e della dignità femminile, che proseguì tale nobile battaglia anche negli anni successivi schierandosi contro l’introduzione del divorzio nella legislazione italiana.
Il focus delle norme era rivolto a colpire le condotte di coloro che – prevalentemente appartenenti al mondo criminale – avrebbero certamente approfittato della condizione di fragilità delle donne che, una volta liberate dall’odioso vincolo pubblicistico, avrebbero rischiato di restare abbandonate alla mercé degli sfruttatori.
La normativa, pur non spregevole, sofferse di un’applicazione minimale, poiché la magistratura inquirente, omettendo di svolgere, in sinergia con la polizia giudiziaria, una doverosa vigilanza sull’humus criminale in cui si muove e di cui si alimenta il lenocinio, abbandonò l’applicazione della normativa a una pratica episodica e frammentaria. Dopo un iniziale fuoco di paglia, infatti, la giurisprudenza si ridusse ad affrontare casi marginali rispetto ai gravi problemi di politica criminale aperti dalla liberalizzazione della prostituzione, dapprima quasi esclusivamente femminile, poi anche maschile. Sì che l’uso dello strumento penale divenne sempre più evanescente, tanto che la deterrenza della normativa del 1958 scemò progressivamente fin quasi a diventare una cosa irrilevante.
Ricordo, con riferimento ai primi anni di partecipazione alla vita del foro, alcuni stanchi dibattimenti al cui centro stava il tema se il convivente della donna dedita al meretricio rispondesse del delitto di sfruttamento per il fatto che anch’egli godesse pro quota dei profitti della prostituzione, ovvero se il taxista che avesse accompagnato la donna sul marciapiede di un viale di periferia rispondesse di favoreggiamento, ovvero se fosse responsabile dei reati di favoreggiamento e sfruttamento il locatore dell’appartamento ove si svolgevano i convegni prezzolati.
Temi, questi, certamente interessanti sul piano tecnico-giuridico, ma marginali rispetto all’esigenza di politica criminale di impedire che, intorno alla prostituzione, gruppi di delinquenti, dominanti sul territorio, dilatassero il loro potere di controllo, costringendo con la violenza a prostituirsi giovani fragili e sbandate. In certi territori, in specie nelle aree delle grandi città del nord e del centro Italia e, soprattutto, nelle aree urbane di Napoli e della Puglia, gruppi criminali già strutturati in associazioni per delinquere approfittarono ampiamente della liberalizzazione. Nelle città ricche del nord il racket venne controllato, prima che la mafia e la ‘ndrangheta gettassero i loro tentacoli sul corpo sociale, dai gruppi della ‘mala’ locale. Nel napoletano, nel foggiano e nel barese lo sfruttamento della prostituzione rafforzò considerevolmente le già strutturate cosche di camorra e locali che, prima di dedicarsi negli anni 1970 anche alla droga, aggiunsero al contrabbando dei tabacchi il lucroso business della prostituzione.
2. Il dilatarsi della violenza sulle donne. – La liberalizzazione della prostituzione dalla soggezione di tipo amministrativo presentava una serie di rischi che avrebbero dovuto essere previsti ed evitati tramite sia un’organica politica di prevenzione sociale, che di una politica giudiziaria adeguata al rischio di accumulo illecito di ricchezze in capo ai gruppi criminali.
Gli oppositori alla riforma del 1958, invero, al di là, da parte di alcuni, di un’antiquata visione circa l’opportunità, comunque, di una regolamentazione amministrativa del fenomeno, temevano tanto l’aumento del rischio sanitario per la maggiore probabilità di diffusione delle malattie veneree, quanto – e ancor più – che la liberazione delle donne dal controllo amministrativo aprisse la strada alla loro sopraffazione da parte dei “protettori”, disposti ad accaparrarsi con la violenza i profitti da loro guadagnati.
L’esercizio del potere sulla donna con la violenza da parte dell’uomo è una drammatica realtà che ha accompagnato l’intera storia delle civiltà, anche di quella cristiana, pur se in quest’ultima l’istituzione della famiglia monogamica e stabile ha contribuito, in misura diversa a seconda delle varie fasi storiche, ad attenuare notevolmente il fenomeno della violenza. Da quest’ultimo punto di vista posso riferire i dati di una serie di ricerche eseguite sotto la mia guida nel primo decennio del 2000 nell’Università di Padova dai laureandi in diritto penale.
Assumendo come punto di riferimento esclusivamente i delitti di omicidio compiuti negli ultimi decenni del secolo scorso su donne nell’ambito di rapporti di prossimità – delitti per i quali non è ipotizzabile un numero oscuro significativo – se ne constatò una frequenza, per tutte le Corti di Assise di Appello d’Italia, relativamente modesta rispetto all’intensificazione avvenuta progressivamente nel corso degli anni successivi. Segno indubitabile che il trend della violenza estrema nei rapporti di coppia, invece di scemare, aumenta con il diffondersi della pseudo-cultura basata sulla mercificazione del sesso.
Un dato in ogni caso emerge in modo inequivocabile: l’aumento, quantitativo e qualitativo, in termini di gravità, della violenza sulle donne. Gli eventi accaduti negli ultimi tempi, di cui le cronache hanno fornito un’informazione fin troppo dettagliata, ne costituiscono una conferma evidente.
3. Il cambiamento dei parametri etico-sociali nella seconda parte del secolo ventesimo. – La riflessione sull’attuale situazione induce a compiere un passo a ritroso che ci riconduca all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, allorché mutarono i parametri di giudizio di carattere etico sociale –e, conseguentemente, le prassi statisticamente rilevabili – in relazione a una serie di rapporti lato sensu riferibili a ciò che una volta era definito codicisticamente tramite la categoria della “morale familiare”. Categoria che la dottrina penalistica largamente dominante riprovò duramente, ritenendola antiquata e retriva, di cui un diritto penale moderno si sarebbe dovuto sbarazzare, e di cui, in effetti, si è sbarazzata.
Tra i fattori che caratterizzarono questo passaggio epocale vi fu la sottovalutazione della violenza nelle relazioni di carattere sessuale. Nella mitologia della rivoluzione sessuale è quasi esclusivamente esaltata la componente della libertà. Non che gli psichiatri, soprattutto quelli di formazione psicoanalitica, abbiano trascurato di rilevare lo stretto rapporto tra eros e tanatos (Ερως e Θάνατος); neppure i criminologi hanno omesso di sottolineare questo nesso, soprattutto nelle perizie riguardanti la diagnosi psichiatrica dei serial killers di tipo sessuale, che scatenano preferibilmente la loro violenza omicida sulle prostitute.
Basterebbe leggere qualche pagina del libro dello psichiatra e criminologo Michel Dubec, Le plaisir de tuer (Michel Dubec, Chantal De Rudder, Le plaisir de tuer, Paris, 2007), per rendersi conto delle pulsioni di morte che stanno alla base dell’agíto di molti criminali sessuali. Sta di fatto che tali pulsioni – che si manifestano nel vilipendio del corpo della donna; in prestazioni sessuali collettive con plurime violazioni contemporanee del suo corpo; in violenze; in vessazioni torturanti e financo in uccisioni – trovano alimento e impulso nella mercificazione del sesso. Il luogo, invero, ove tale fenomeno si verifica in modo per così dire elettivo è la prostituzione, la cui cifra concettuale risiede nella messa a disposizione del corpo in cambio di un prezzo.
Il legame tra violenza e prostituzione è evidente. Non soltanto il suo progressivo controllo da parte dei gruppi criminali è realizzato tramite una sempre più capillare sottoposizione delle donne – e anche degli uomini abusati sessualmente – al dominio violento di coloro che se le (li) contendono con gli altri gruppi criminali, come bene/merce per accrescere i profitti. Ma, di più e soprattutto, occorre riconoscere che la violenza è un concreto pericolo sempre incombente al fenomeno della prostituzione, sia ab externo, come strumento di controllo dei profitti che se ne possono ricavare, sia intrinsecamente, poiché il rapporto prostituitario configura il possesso fisico di una persona da parte di un’altra, in cui, come già detto, la sfera sessuale è trattata alla stregua di una merce.
4. Il nesso tra mercificazione della sessualità e violenza. – Una visione mercificata della sessualità si è diffusa come un veleno mortifero nella società occidentale avanzata, fomentata da tre fattori ideologici strettamente correlati tra loro: l’individualismo, che rompe i legami sociali, e che, prima ancora, frantuma il coniugio, come unione aperta alla generatività; l’edonismo, che sottrae la risorsa della sessualità alla sfera spirituale del riserbo personale; il contrattualismo, che riconduce al denominatore del prezzo ogni relazione tra le persone.
Il corpo della donna è così divenuto vittima sacrificale della violenza maschile. Lo sfruttamento commerciale del corpo femminile costituisce un aspetto non trascurabile del processo di mercificazione della donna, utilizzata come strumento per l’attrazione del consumatore e per l’implementazione dei profitti del produttore di merci. L’aspetto specificamente devastante dell’identità femminile è, però, la pornografia. Vero che nella rappresentazione pornografica, cartacea o filmica, partecipano attori d’ambo i sessi; tutti compiono a pagamento prestazioni sessuali per soddisfare i consumatori. Ma è la donna che subisce l’affronto più atroce. Su di lei si riversa la sessualità maschile che, deprivata di ogni profilo anche soltanto emotivo e strappata dalla sfera del riserbo personale, non può non manifestarsi se non come espressione violenta diretta al possesso del corpo. Vero che ad esso la donna presta un consenso, ma l’atto è viziato in radice perché innestato sulla cessione del corpo in cambio di un prezzo.
La pornografia è prostituzione: prostituzione che tanto più degrada gli attori del rapporto, quanto più esso è destinato alla soddisfazione di un numero indeterminato di soggetti che pagano il prodotto confezionato dall’industriale della pornografia. Essa degrada anche i suoi fruitori da remoto, condizionandone le ideazioni sessuali e inducendone a imitare lo stesso tipo di sesso codificato che è rappresentato nel prodotto confezionato.
L’industriale è lo sfruttatore della pornografia, la cui condotta rientra pacificamente sotto la disciplina dell’art. 3, nn. 4, 7 e 8 della legge 20 febbraio 1958, n. 75. La normativa, infatti, era destinata non solo ad abolire la regolamentazione della prostituzione, ma, soprattutto, alla lotta contro il suo sfruttamento. Gravemente manchevole è stata negli ultimi trenta anni l’attitudine della magistratura inquirente, che ha completamente disatteso gli obblighi di esercitare l’azione penale contro gli sfruttatori.
Non sono tali soltanto coloro che traggono il profitto direttamente dal prostituito, ma anche – e soprattutto – coloro che lo ricavano dal consumatore della prestazione indotta e retribuita. La visione dello sfruttatore esclusivamente nel soggetto che prende il profitto direttamente dal prostituito è grettamente moralistica e sociologicamente riduttiva rispetto alla complessità del fenomeno prostitutorio. Molte volte mi sono domandato per quali ragioni non siano state svolte inchieste sui centri di produzione della pornografia per i delitti di reclutamento per l’esercizio della prostituzione, del suo favoreggiamento e sfruttamento, nonché per il delitto di associazione per delinquere. Il compagno della prostituta che percepisce il denaro ricavato dal compenso del cliente è – al confronto con l’industriale che diffonde nel mondo centinaia di migliaia di videocassette pornografiche – il ladro di biciclette rispetto all’organizzatore dell’associazione mafiosa che pianifica sul territorio i furti, le estorsioni, le rapine e il traffico degli stupefacenti.
Serie indagini nella direzione dei centri di produzione e di diffusione della pornografia condurrebbero certamente alla scoperta di delitti gravissimi a riguardo del traffico degli esseri umani, giovani donne e minori, reclutati in varie parti del pianeta e portati come schiavi sui pingui mercati dell’Occidente corrotto. Ma di più: si scoprirebbero riserve di denaro enormi che inquinano l’economia reale.
5. La tolleranza dello sfruttamento della prostituzione: le ragioni ideologiche. – La mancata persecuzione giudiziaria della prostituzione pornografica, nonostante l’esistenza di leggi che obbligano gli organi inquirenti a indagare e a esercitare l’azione penale per i delitti di sfruttamento e di associazione criminale, trova la sua causa remota in un giudizio etico-giuridico completamente infondato circa l’innocuità sociale della pornografia, purché essa sia fruita privatamente fuori dai circuiti pubblici di rappresentazione.
Questa tesi è fallace in radice già per il semplice motivo che essa amputa dal suo cono di osservazione il dato empirico di base. La questione non è la posizione del consumatore, di colui, cioè, che si diletta privatamente, senza ‘far danno ad alcuno’ del prodotto pornografico, bensì del produttore di pornografia, che sfrutta a fini di lucro la prostituzione altrui. Il problema è analogo a quello relativo all’uso degli stupefacenti. Il problema del consumatore è di carattere sociale e concerne la politica di prevenzione dell’uso delle droghe. Il problema penale, invece, riguarda il produttore e il trafficante degli stupefacenti, che lucrano il denaro sfruttando il vizio degli utenti. Onde dovrebbe comunque ammettere il grandissimo disvalore sociale e penale dello sfruttamento della prostituzione altrui anche chi si fa seguace della tesi della innocuità della pornografia per l’utente finale.
Senonché, falsa è pure la tesi dell’innocuità sociale della pornografia. Tale tesi, esposta da Giovanni Fiandaca nel 1984 (“Problematica dell’osceno e tutela del buon costume”, Padova) è stata accolta senza remore dalla magistratura inquirente italiana, perché le ha fornito l’alibi per omettere ogni inchiesta sul favoreggiamento e sullo sfruttamento della prostituzione. I fenomeni illeciti venivano nel 1984 ricondotti eufemisticamente da Fiandaca sotto l’etichetta dell’ “oscenità”, che avrebbe offeso un vago ed evanescente concetto di ‘buon costume’.
Lo studioso siciliano sosteneva che l’oscenità, in quanto espressione di semplice immoralità, non può essere oggetto di contrasto penale in uno Stato democratico. Anche la sua dannosità sociale sarebbe da escludersi in ragione del pluralismo delle concezioni etiche vigenti. L’oscenità potrebbe essere giuridicamente contrastata soltanto quando violasse la libertà personale, quando, cioè, la rappresentazione pubblica dell’osceno fosse in grado di “aggredire in concreto il bene protetto” della libertà individuale. Al massimo, dunque, la sfera di applicazione della normativa a tutela del buon costume si sarebbe dovuta circoscrivere alla “messa in circolazione o all’esposizione di immagini oscene in assenza di adeguati segnali informativi predisposti ad hoc”.
In una società democratica, tuttavia, anche questo limite sarebbe irragionevole. Il modello di uomo psicologico selezionato dalla pedagogia psicoanalitica sarebbe in grado, secondo Fiandaca, di confrontarsi razionalmente con le stesse proibizioni ancestrali. Di fronte, invero, al “processo di maturazione emotiva potenzialmente estensibile a tutti gli uomini, sempre più sradicandosi dall’inconscio collettivo”, sarebbe incongruo mantenere il controllo penale a tutela del diritto al riserbo sessuale, perché ciò provocherebbe il rischio di “trasformare il legislatore in supino osservante di istanze tabulistiche che appartengono, ormai, alla preistoria del nostro retroterra culturale”.
Questa tesi fallace ha destrutturato il sistema di protezione penale eretto contro l’invadenza pornografica, perché ha misconosciuto il valore cruciale, strettamente personale, della riservatezza sessuale, che è il custode essenziale di una sessualità libera, non potestativa e non mercificata, proporzionata alla dignità della persona umana, sinolo indissolubile di corpo e di spirito.
6. La lezione dell’esperienza. – L’esperienza confuta da se stessa la tesi di Fiandaca. Essa amputava, anzitutto, l’oggetto del problema reale. Non un’astratta oscenità delle immagini è – ed era – in questione; bensì lo sfruttamento della prostituzione altrui per la fruizione dello spettatore pagante. Errata, inoltre, è la descrizione ideologica del modello contemporaneo dell’uomo ormai emotivamente maturo, capace di confrontarsi razionalmente con le proibizioni ancestrali. La radice dell’errore sta in una antropologia evoluzionista che vedrebbe, con il progredire della comprensione esclusivamente materialistica che l’uomo avrebbe finalmente del proprio essere, la sua liberazione dalle pulsioni originarie di violenza e di sopraffazione.
L’esperienza, non solo la scienza, confuta la premessa presuntamente scientifica di Fiandaca. Se si porta uno sguardo realistico sul mondo circostante e, in particolare, sulla mercificazione della sessualità in Occidente, ci si rende conto che la cosiddetta liberazione dai tabù ancestrali ha scatenato gli impulsi più primitivi legati all’uso senza limiti del sesso cosificato. Il connubio sempre più stretto tra il sesso e la violenza, che caratterizza una parte non piccola dell’esperienza contemporanea, è il frutto evidente della lacerazione, anche a livello subcosciente, del concetto fondamentale di limite razionale alle pulsioni incontrollate ed egoistiche, che provoca lo scatenarsi libero dell’autodistruttività dell’umano. L’aspettativa di Fiandaca circa l’apparire di un uomo finalmente maturo, perché si è liberato dai tabù ancestrali, induce oggi a riflettere con amara ironia sulla fallacia di certe pedagogie psico-analitiche, accolte improvvidamente dagli studiosi di diritto!
7. Conclusione: ‘che fare’ e ‘come fare’ per il contrasto alla violenza sessuale. – Non è a meravigliarsi pertanto dell’inaudita violenza che si sprigiona dalla società contemporanea sul corpo delle donne. La mercificazione del sesso favorisce l’invasione frequente della violenza nelle relazioni sessuali, fino a che essa diviene dominante nel rapporto uomo/donna. E’ opportuno, ma non sufficiente, che la donna denunci la violenza di cui è vittima.
E’ necessario, però, che i modelli violenti, imperniati sulla cosificazione del sesso, completamente deprivato della sua essenziale connotazione generativa e ridotto a strumento di fruizione ludica per un piacere venereo che si situa al di fuori di un qualsiasi rapporto stabile di condivisione di vita e di affetti – diceva Vico che presso tutte le Nazioni, così barbare, come umane, si osservano i tre costumi della religione, dei matrimoni solenni e della pietà verso i morti, e che queste tre cose debbono essere santissimamente custodite da tutte “perché ’l Mondo non s’infierisca, e si rinselvi di nuovo…”( Scienza Nuova, 1744, De’ Principi, § 115) – siano contrastati in qualunque loro espressione.
Se alcuni giovani di famiglie benestanti, come raccontano le cronache, si fanno lecito – e presumono di avere il consenso tacito della coetanea incontrata in una discoteca – di violarne il corpo in modo collettivo, imitando uno degli schemi usuali della pornografia filmica, vuol dire che la violenza sul corpo delle donne è diventata ormai parte del costume sessuale acquisito da una parte non irrilevante della gioventù occidentale. Senza citare i casi sempre più frequenti di violenza seriale sconfinante nella patologia, basti l’esempio meno sconvolgente della vicenda appena ricordata a dimostrare la fallacia dell’idea di Fiandaca che l’uomo psicologico della contemporaneità liberata dal tabù della riservatezza della sfera sessuale possegga una maturità razionale tale da preservarlo dalla violenza sul corpo di chi è più vulnerabile sul piano fisico.
Rispondere alla domanda sul “che fare” e sul “come fare” per proteggere le giovani generazioni dal rinselvatichirsi e dall’infierirsi è cosa concettualmente non difficile, anche se praticamente pressoché impossibile da attuarsi per la pulsione invadente dei media e di una parte preponderante della cultura dello spettacolo, nonché per la forza economica degli imprenditori della prostituzione. Occorre, invero, riguadagnare la nozione propria alla sessualità umana, come risorsa profonda che nasce dalla stessa inclinazione della carne al dono di se stessi agli altri, in primis a colei o a colui con cui si è legati stabilmente dall’intimo vincolo coniugale. Occorre anche che la donna riacquisisca liberamente il valore della maternità, la cui cifra profonda manifesta l’amore più ineradicabile e viscerale, quello verso la creatura che nasce e vive nel grembo della madre prima di farsi visibile a tutti.
Mauro Ronco
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