Negli ultimi mesi si è e avuta, in gran parte del Paese, una netta inversione nella considerazione dell’Unione Europea (UE). Nel decennio precedente si era andata espandendo e accentuando, in Italia come un po’ ovunque in Europa, la critica nei confronti dell’UE e dell’euro, in conseguenza del fatto che molti imputavano alla gestione dell’una e dell’altro i risultati economici negativi avutisi a partire dal 2009, nella fase recessiva successiva alla crisi finanziaria mondiale del 2007-08, nel corso della quale quasi tutti i paesi che formano la prima – e in particolare quelli che adottano il secondo – hanno registrato le peggiori performance economiche, se confrontate con le altre regioni economiche del mondo.
Una spiegazione della predetta inversione potrebbe essere data dall’operare del motivo di fondo che pare abbia sotteso alla richiesta di adesione all’UE di gran parte degli stati che vi hanno aderito dal 2004 in poi. Cioè la possibilità di usufruire di rilevanti sovvenzioni erogate al proprio interno dall’UE stessa, per ragioni di riequilibrio territoriale. In effetti, nel biennio 2020-21, l’UE ha varato un piano di erogazione di sovvenzioni e prestiti ai singoli stati (Programmi SURE e Next Generation EU (NGEU) e Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2021-27) per un valore complessivo di 1824,4 miliardi di euro, finanziate in parte con risorse proprie dell’UE – derivanti anche da prelievi fiscali e parafiscali di tipo indiretto – e in parte con indebitamento diretto dell’UE sui mercati finanziari internazionali, operazione di tipo solidale poiché l’indebitamento dell’UE può avvenire a costi più bassi rispetto a quelli che dovrebbero sostenere i singoli stati, specie quelli con posizioni debitorie più elevate.
Più nobile è la spiegazione che ha sempre a che fare con i predetti programmi, non tanto per l’entità delle risorse coinvolte, quanto per l’affermazione del principio di solidarietà interstatuale, contenuto a chiare lettere nel primo Discorso sullo Stato dell’UE della neopresidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, del settembre scorso e applicato già nella ripartizione delle risorse del NGEU (che ha come riferimenti parametrali, oltre alla quota della popolazione dei singoli stati, l’inverso del PIL pro capite, il tasso di disoccupazione e il calo del PIL reale negli anni 2020-21) nonché nel programma chiaramente indicato nello stesso discorso di voler creare un’economia dal volto umano, un’economia sociale di mercato che sia vocata alla resilienza, in quanto protegge dai grandi rischi della vita (malattie, disoccupazione, rovesci di fortuna, povertà), garantisce stabilità e consente di assorbire meglio gli urti interni o di origine estera, crea opportunità e prosperità. Questo all’interno di un programma di lungo periodo di costruzione di un mondo nuovo che, anche attraverso l’innovazione e la trasformazione digitale, crei un ambiente umano in cui operano strumenti di salvaguardia della salute delle persone e di protezione dei lavoratori e delle imprese, affiancato dalla salvaguardia dell’ambiente naturale che sia in grado di dare un futuro all’umanità.
Con le parole scritte sopra credo di aver introdotto un punto di riflessione nuovo. Evitare che – così come avvenne a metà degli Anni Novanta del secolo scorso riguardo all’adesione o no dei paesi, allora costituenti la neonata Unione Europea (in prosecuzione della comunità Economica Europea), alla istituenda Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea che doveva portare alla nascita dell’area monetaria dell’euro – il dibattito si riduca alla semplicistica contrapposizione fra il partito dei sì e il partito dei no, senza che venga affrontata l’unica questione sensata da porre, che dovrebbe essere: quale tipo di Europa, sul piano dei principi e sul piano della prassi gestionale dell’Unione stessa.
Per poter continuare il ragionamento occorre aver ben presente il modello di UE che emerge dal consolidamento dei tre documenti che ne costituiscono la struttura istituzionale: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDF), il Trattato dell’Unione Europea (TUE) e il Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), quali risultano a séguito del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, in vigore, nei testi attuali, dal 1° dicembre 2009. Ma questo non basta, perché rilevante è il modo in cui le istituzioni europee applicano poi i principi stessi.
Con riferimento al primo punto, occorre avere ben presente che sarebbe del tutto inadeguato elencare semplicemente, via via che s’incontrano, le “cose” che i trattati prendono in considerazione. È essenziale analizzare queste alla luce della sequenza di finalizzazione, che vede a monte i valori derivati dai principi etici); da questi scaturisce la visione del problema, che si estrinseca in uno o più obiettivi finali, le “cose” che veramente contano di per sé, in quanto il raggiungimento di essi comporta la realizzazione dei valori e della visione. Dalla visione scaturisce la missione da compiere ed è possibile, anzi è probabile, che la missione – attraverso la quale si punta a dar campo alla visione che presiede il tutto – individui alcuni principi istituzionali o strategie, che si concretizzano in uno o più obiettivi intermedi, che di per sé non sono rilevanti, ma attraverso i quali occorre però transitare (o almeno così appare) per arrivare agli obiettivi finali. È però possibile che si abbiano errori di prospettiva, nel senso che la realizzazione di alcuni obiettivi che paiono sensati (ad esempio, la stabilità finanziaria di un sistema economico) determini l’allontanamento da un obiettivo intermedio di grado più elevato (più vicino a obiettivi finali: ad esempio, la piena occupazione), che è consono a uno o più obiettivi finali (ad esempio, la dignità delle persone). Il puntare sul primo obiettivo intermedio porterebbe allora ad un risultato perverso, poiché farebbe allontanare il sistema dal suo obiettivo finale o da uno dei suoi obiettivi finali.
Di questa posizione relativa fra obiettivi finali e obiettivi intermedi (gli uni e gli altri da non confondere con strumenti e vincoli), occorre avere una consapevolezza piena per avere una chiave di lettura e di sistemazione delle diverse “cose” indicate nei trattati dell’UE, tenendo comunque presente che, fin dal Trattato di Roma del 1957, che fondò la Comunità Economica Europea, e, a maggior ragione, dal Trattato di Maastricht del 1992, che fondò l’Unione Europea, la Comunità/Unione europea non è mai stata solo un progetto puramente economico, una semplice zona di libero scambio commerciale, bensì un progetto politico costruito sulla condivisione di una serie di valori morali, tra i quali fondamentali e tipici della cultura europea sono il principio della giustizia sociale e della pace, al suo interno e nel mondo.
Con riferimento all’UE, i “valori” sono innanzitutto evidenziati nel preambolo della CDF: «I popoli d’Europa, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto. Pone la persona al centro della sua azione, istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, […] nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa nonché dell’identità nazionale degli stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale. Essa si sforza di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali nonché la libertà di stabilimento». La stessa dignità umana non dev’essere un appannaggio dei soli cittadini degli stati dell’UE. In effetti, gli Art. 18 e 19 della CDF sanciscono che «il diritto di asilo è garantito, nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra [relative] allo status dei rifugiati e a norma dei […] “trattati”. Le espulsioni collettive sono vietate. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti».
Già la CDF non mostra di avere le idee ben chiare fra obiettivi finali e obiettivi intermedi, poiché introduce i predetti obiettivi alla rinfusa e non graduandoli secondo il loro grado di finalità. La graduazione degli stessi porta a contemplare, quale obiettivo finale, la dignità umana, la quale non può realizzarsi appieno se non ci sono la libertà e l’uguaglianza e non opera lo spirito di solidarietà e se non sono rispettati i principi di democrazia e dello Stato di diritto, che assicurino a ciascuna persona il diritto della cittadinanza e il diritto della giustizia. Intermedi sono gli obiettivi dello sviluppo equilibrato e sostenibile e della libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali nonché della libertà di stabilimento.
Per conto suo, l’Art. 3, comma 3, del TUE ribadisce i principi fondanti degli obiettivi finali e intermedi: «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli stati membri. Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo».
Sono definiti gli obiettivi, in campo economico e sociale, dell’UE, non distinguendo però chiaramente fra obiettivi finali e obiettivi intermedi. Invece è proprio su questa distinzione che si gioca la bontà o meno del modello economico-sociale europeo. Una lettura attenta, alla luce del principio di distinzione sopra precisato, porta, a mio avviso, all’individuazione, quale obiettivo finale dell’Unione, della realizzazione dello «sviluppo sostenibile dell’Europa basato su:
1) una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi;
2) un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale;
3) su un elevato di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente».
Ora, le tre “basi” non si presentano sullo stesso livello di finalità. Se il valore di fondo sta – come evidenziato sopra – nella “dignità della persona”, pare evidente che il livello più avanzato di finalità sta nella “piena occupazione e nel progresso sociale” (con quest’ultimo che si realizza combattendo l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuovendo la giustizia, la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la tutela dei diritti del minore, la coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione Europea” – successivi due capoversi dello stesso comma) e che la crescita economica equilibrata, la stabilità dei prezzi, l’economia sociale di mercato fortemente competitiva, la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente, il progresso scientifico e tecnologico, la solidarietà tra le generazioni (e perché non anche fra le persone della stessa generazione?), la solidarietà tra gli stati membri e, ancor più, la creazione di un mercato interno e l’istituzione di un’unione economica e monetaria (la cui moneta è l’euro) siano, con diversi livelli di prossimità rispetto all’obiettivo finale, obiettivi intermedi o meri strumenti operativi.
Con un’espressione di sintesi, alla luce dei trattati dell’UE, l’enfasi va posta sulla dimensione sociale piuttosto che sulla dimensione dell’elevata competizione di mercato. Infatti il sintagma “economia sociale di mercato fortemente competitiva” viene specificato con l’indicazione “che mira alla piena occupazione e al progresso sociale. “Piena occupazione” e “progresso sociale” sono così gli unici obiettivi finali esplicitamente indicati, mentre tutti gli altri sono presenti in quanto caratteristiche di àmbito necessarie affinché si possano realizzare i due obiettivi finali predetti. Infatti, un obiettivo finale non può riguardare che la persona umana, la sua piena realizzazione; non certo delle caratteristiche d’àmbito, quali sono il mercato interno fortemente competitivo, l’istituzione di un’area monetaria unica, la stabilità dei prezzi, il progresso scientifico e tecnologico ecc. Non ha senso e sarebbe contro i trattati europei puntare sui secondi, se questi portassero all’allontanamento dagli obiettivi finali.
Ma è proprio ciò che è avvenuto: la gestione dell’UE nell’ultimo ventennio non risulta affatto in linea con i predetti obiettivi finali, poiché ha puntato su obiettivi intermedi che hanno fatto allontanare gran parte dei paesi dell’Unione dagli obiettivi finali statuiti nei trattati europei.
Sull’altare della stabilità finanziaria – che è chiaramente un obiettivo intermedio – è stata impostata una politica di austerità che ha portato diverse aree dell’UE in situazioni di ristagno economico, elevata disoccupazione e rilevante crescita della povertà. L’austerità ha comportato principalmente una politica di tagli profondi alla spesa pubblica, mirati all’obiettivo di ridurre i deficit di bilancio pubblici. Se questi tagli avessero riguardato solamente spese inutili o dannose nei confronti delle loro ricadute sociali, sarebbe stato un bene – e non ci sarebbe stato bisogno del richiamo del principio di austerità, per tagliarle: una spesa inutile o dannosa non va fatta, comunque essa sia finanziata; non con imposte (evitando di creare deficit di bilancio, quindi), non con indebitamento, non con creazione di moneta; non dev’essere fatta!
Il fatto è che questi tagli, in diversi paesi, hanno riguardato le spese sociali, portando alla riduzione significativa del volume dei servizi erogati e/o al peggioramento della loro qualità: spese sanitarie, per erogazione di servizi alle famiglie, per le cure dei figli e di altri famigliari in stato di bisogno, spese per attività di formazione scolastica e professionale atte a permettere l’entrata, o il mantenimento della presenza, delle persone nel mercato del lavoro ecc.
Il continuo martellamento della Commissione Europea e del Consiglio dell’UE nonché della Banca Centrale Europea (e di quest’ultima non vedo la competenza in merito!) nei riguardi delle “riforme”, che quasi tutti i paesi dovrebbero introdurre in tempi brevi – e dal conclamato o supposto imbocco di processi di realizzazione delle quali viene fatto dipendere il riconoscimento dello status di paese virtuoso o di paese vizioso, con conseguente applicazione di bonus o di malus nei rapporti economici, finanziari, o anche solo fiduciari, fra il governo centrale dell’UE e i singoli stati – risente della presenza di un modello di valutazione e di comportamento non in sintonia con gli obiettivi finali fissati nei trattati europei.
Si tratta di riforme, in parte, non del tutto chiare nei loro contenuti, che garriscono al soffiare di venti di origine non ben chiara, ma che richiamano generici odori di efficienza – disgiunti da considerazioni circa l’efficacia in termini di Bene Comune per la collettività – di oscuri equilibri di lungo periodo, difficili da monitorare, di vaga solidarietà intergenerazionale ecc. In parte, di riforme che chiaramente tendono a smantellare il Welfare State e il sistema di relazioni industriali create in Europa – specie a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – riducendo i diritti, le garanzie e le condizioni dei lavoratori, subordinandoli agli interessi dei proprietari del capitale. La motivazione sta nella difesa della capacità dell’economia dell’UE di competere con il resto del mondo in termini di prezzi; a beneficio di quella parte del mondo imprenditoriale europeo che, per sopravvivere, punta sulla capacità di competere in termini di prezzi, non essendo capace di competere in termini di qualità, nei confronti della quale capacità la presenza di un robusto sistema di formazione scolastica e professionale, di tutela della salute, di protezione sociale, di giustizia sociale, costituisce invece un importante atout.
In conclusione, guardando all’ultimo ventennio, non sono i principi e gli obiettivi finali statuiti nei trattati europei a dover essere riformati. È la gestione dell’UE svolta nello stesso ventennio che risulta non rispettosa degli obiettivi finali contenuti negli stessi trattati europei. Alla luce dei valori e principi etici che presiedono il contenuto di Bene Comune, il modello d’Europa definito dai trattati europei (da ultimo, il Trattato di Lisbona del 2007) appare assai migliore rispetto all’effettiva gestione che alla comunità europea hanno dato gli organismi investiti del governo dell’Unione Europea. È quest’ultimo che dev’essere riformato affinché – sembra strano dirlo, ma è così – l’UE venga instradata lungo la via già ben delineata nei suoi trattati costitutivi.
L’inversione di tendenza che pare essere stata acquisita dagli organismi europei di comando (Commissione Europea, Parlamento Europeo e Consiglio Europeo), nel biennio 2020-21, che è stata evidenziata in apertura di questo articolo, pare andare nella direzione coerente con i principi di fondo che emergono dall’interpretazione teleologica dei trattati europei.
Daniele Ciravegna