L’opportunità dell’introduzione del salario minimo per legge non è messa in discussione quasi da nessuno, almeno in modo esplicito. Lo stesso Governo inizialmente restio, ha poi dato qualche cauta apertura. Il PD ne ha fatto una propria bandiera, cercando di recuperare un rapporto con il mondo del lavoro, che costituisce lo stigma identitario di un partito di sinistra.

E’ utile però interrogarsi sul modo in cui si voglia introdurre questo istituto, avendo cura di semplificare, e non complicare, il già complesso sistema giuridico che regola il mondo del lavoro.

A tale proposito sarebbe auspicabile che il PD si renda disponibile in Parlamento alla riscrittura della proposta presentata e redatta probabilmente in gran fretta.

Questi gli elementi a mio parere più significativi sui quali intervenire:

1. L’art. 7 della proposta di legge prevede un beneficio in favore dei datori di lavoro che devono adeguarsi alla corresponsione del salario minimo. E’ una norma contraddittoria. Il datore di lavoro già oggi avrebbe dovuto adottare un contratto collettivo di lavoro esistente, possibilmente sottoscritto dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, che certamente avrebbe previsto già ieri ed oggi un salario superiore al minimo previsto di 9 euro lordi all’ora. Se non lo ha fatto, ha goduto di un ingiusto vantaggio economico anche verso la concorrenza e, quindi, non andrebbe premiato.

2. Per poter definire cos’è il salario minimo, l’art. 2 parte da un tentativo di definizione della “retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Tale concetto si dice desunto dall’art. 36 della Costituzione che in realtà contiene un’espressione diversa e più ampia: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” Sarebbe utile che una norma sul salario minimo non si avventuri in una interpretazione della Costituzione per di più al ribasso.

In ogni caso, la Costituzione è ben lontana dal voler definire nei contenuti qual’è la retribuzione giusta. E’ un compito che rinvia, attraverso l’art. 39, alla contrattazione collettiva e, in caso di contenzioso, al Giudice del Lavoro.

Meglio probabilmente dire a cosa corrispondono i 9 euro lordi orari, anche utilizzando la definizione adottata di trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa.

Il concetto di trattamento economico complessivo andrebbe tenuto distinto da quello di retribuzione in generale, che, prevede altri elementi che intervengono nella remunerazione del lavoratore quali, ad esempio i premi o gli istituti di welfare, così come elementi differiti quali il trattamento di fine rapporto.

3. L’art. 36 contiene al secondo comma la previsione che “la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”. Verrebbe da chiedersi perché il Costituente non abbia introdotto una norma che dicesse: “il salario minimo spettante ai lavoratori è stabilito per legge”.

E qui entra in gioco l’art. 39 che al quarto comma prevede che “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Quindi la Costituzione non prevede alcun intervento legislativo sulla retribuzione, perché ne rinvia la regolamentazione alla contrattazione collettiva. E pur tuttavia introduce il principio che i contratti di lavoro sono legittimi in quanto sottoscritti da sindacati che hanno personalità giuridica in virtù di una registrazione, che peraltro ne riconosce anche l’assetto democratico dei relativi statuti.

Ora, certamente la legge può intervenire sul salario minimo. E’ un intervento che non contrasta con nessun principio costituzionale. E tuttavia viene da chiedersi se, insieme all’introduzione del salario minimo, non sia da prevedere in via definitiva l’applicazione del dettato costituzionale anche in tema di rappresentanza.

La proposta del PD fa più volte riferimento ai contratti collettivi, demandando agli stessi il compito di andare oltre il salario minimo per conseguire la retribuzione giusta. Ma i contratti collettivi, senza un intervento sulle regole di rappresentanza, rimangono atti di carattere privatistico con quella natura incerta e scivolosa che conosciamo.

4. La proposta, poi, cerca di allargare l’area della tutela a diverse forme di lavoro autonomo o parasubordinato. A mio parere in questo modo si ottengono due effetti negativi: il primo è di privare il lavoro autonomo e parasubordinato di quella libera volontà delle parti di definire le reciproche obbligazioni che ne costituisce il fondamento; il secondo è quello di legittimare il lavoro autonomo come forma di lavoro equipollente a quello del lavoro subordinato, nonostante il livello di tutele decisamente più basso. L’interesse sociale è di evitare che un rapporto di lavoro subordinato sia regolato in forme illegittime di lavoro autonomo, non certo di regolare quest’ultimo andando al di là dei principi del codice civile.

5. Dall’altra parte, invece, ci si può domandare se sia corretto escludere dalla normativa il lavoro domestico (vedi art. 2 ultimo comma della proposta). In realtà è proprio in quest’ambito che la retribuzione oraria e per larga parte inferiore al salario minimo.

6. Infine, l’articolo 5 introduce una Commissione per l’aggiornamento del salario minimo. Dovrebbe essere formata da 4 rappresentanti degli organi di governo (Ministero, INPS, ISTAT, Ispettorato) e un numero non precisato di rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, un numero che potrebbe arrivare a decine e decine di persone. Una sede chiaramente assembleare votata alla negoziazione infinita. In realtà se il salario minimo è fissato per legge, non è necessario che la commissione esprima le rappresentanze del mondo del lavoro, che hanno semmai il compito di fare i contratti collettivi. Meglio una commissione tecnica che valuti dati oggettivi e consenta al Ministro di decretare in modo informato.

Rodolfo Buat

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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