È inevitabile che, finita questa emergenza sanitaria, le nostre vite non potranno riprendere come se nulla fosse successo. E la cosa non riguarderà solo persone e famiglie, ma anche le istituzioni e l’economia. E non soltanto in Italia.
Le grandi crisi epocali e le guerre hanno sempre prodotto sconvolgimenti. E si è sempre detto che i cambiamenti costituzionali e di regime possono avvenire dopo eventi straordinari. Come afferma Luigi Ingegnere (11 marzo su “Politica Insieme”CLICCA QUI ) “Sarà un Dopoguerra come lo è stato nel 1919 e nel 1945, solo per citare due date significative dell’Italia unitaria. […] perché anche il quadro politico/istituzionale subirà qualcosa di più di un terremoto […] senza escludere altre sorprese come sempre succede in queste situazioni, che tenteranno soluzioni antidemocratiche anche quando saranno formalmente rispettose delle regole democratiche. […] ci saranno forze politiche che soffieranno sul malcontento illudendo la cittadinanza con scorciatoie impossibili ma di facile presa emotiva, oppure cercando capri espiatori, dall’Europa agli immigrati”.
Stesse considerazioni vengono da Giorgio Merlo (11 marzo “Il Domani d’Italia”) “Molti già lo definiscono come un cambio epocale, altri come una trasformazione radicale, altri ancora come una rivoluzione definitiva. Molto più semplicemente, non ci vuol molto a capire che l’emergenza con cui stiamo purtroppo convivendo cambierà, e profondamente, il nostro stile di vita. Lo cambierà perché questo periodo di sostanziale, e giusto e sacrosanto coprifuoco, alterazione dei nostri comportamenti è destinato nel medio/lungo periodo a modificare il nostro stile di vita. Non ci vuol molto a capire che probabilmente nulla sarà più come prima. Dalla vita sociale ai rapporti personali, dalle modalità concrete di partecipare alla vita pubblica al giudizio su chi ci dovrà governare, dalla richiesta di competenza dei vari attori in campo allo stesso modo di comportarsi nella società globale. Insomma, un cambiamento radicale di noi stessi. […] E cambierà radicalmente anche la politica”.
Conseguenze sugli stili di vita e sulla necessità di modificare in profondità i paradigmi economici a parte, dunque anche la politica e le istituzioni dovranno ripensarsi profondamente. Dopo la lunga crisi che si trascina dal 2008 e che non tutti (Italia soprattutto) hanno ancora superato, l’insorgere di posizioni sovraniste polemiche con le politiche europee ma soprattutto con la prospettiva di superamento degli Stati nazionali di stampo ottocentesco, la fatica del sistema democratico in più di un Paese (le democrazie illiberali a Est, le elezioni continue in Spagna o Belgio alla ricerca di maggioranze consolidate), le difficoltà dei partiti classici e dei nuclei intermedi, e infine la stessa Brexit che indica una svolta prima imprevista nella costruzione europea, ora questo colpo epidemico che lascia sul terreno persone decedute e mette in ginocchio attività economiche, stili di vita, e inciderà sul PIL, porteranno come conseguenza anche prospettive politico-istituzionali di cambiamento.
Non a caso “La crisi del coronavirus sarà una prova della capacità delle democrazie e di tutti i cittadini di agire sul futuro, ciascuno a modo suo. Sperando che in seguito, le società democratiche su scala nazionale, europea e globale impiegheranno il tempo a chiedersi come espandersi in un nuovo modo di costruire il loro futuro e combattere contro gli altri virus che funzionano ed erodono le nostre democrazie”. (Felice Dassetto, 10 marzo 2020)
Finita l’emergenza, rallegrandosi per essere sopravvissuti al contagio, si dovrà mettere mano alle attività economiche e produttive; cambiando schema di gioco, cambiando le regole dell’ipercapitalismo liberista che ha prodotto danni sociali e finanziari e sta distruggendo l’ambiente e anche le normali relazioni interpersonali, nonché fatto saltare le intermediazioni necessarie al vivere sociale. Ma la domanda da porsi contemporaneamente deve essere: sopravviverà la democrazia? E come?
Dobbiamo considerare, come si legge nell’intervista a Francesco Pallante su ” Rinascita Popolare” ( CLICCA QUI ) e riguardante la democrazia diretta, che “Per tutta la prima fase della storia repubblicana, centro del sistema istituzionale è il Parlamento, non il governo: vale a dire la sede della discussione, non della decisione politica. […] … Tra il 1994 e il 2018 […] quel che conta non è costruire consenso politico intorno a un’ideale duraturo e condiviso, ma dominare il tatticismo parlamentare per realizzare effimere ambizioni personali. […] il pluralismo delle società contemporanee impone l’attenta e costante ricerca di soluzioni di equilibrio, per consentire alle diverse componenti politiche, economiche e culturali di convivere pacificamente. Quel che va tenuto sotto controllo è il rischio, sotteso ma sempre reale, della dissoluzione dell’unità politica in pluralità fratricida. […] Democrazia è, anzitutto, discussione. Non scelta. Più del risultato, conta il procedimento. […] la mera conta dei voti non produce decisioni democratiche, ma imposizioni di parte. Quello di cui oggi c’è bisogno è attitudine al dialogo, rispetto, empatia, curiosità verso le posizioni altrui, disponibilità a cambiare idea: tutte cose che solo la discussione parlamentare, se ben intesa, può riuscire a realizzare. Ed è ben intesa quando il fine è includere, non escludere”.
Non ripeto quanto, in modo più competente e completo di quanto possa indicare in queste poche righe, altri hanno già suggerito come svolta che si imporrà al termine di questa fase di isolamento e rallentamento sociale e produttivo. In particolare per quanto riguarda ambiente ed economia sono eloquenti le parole di Tomaso Montanari (“Il Fatto”, 6 marzo): “il cambio climatico e il prossimo collasso del pianeta dovrebbero farci molta più paura. E non è necessario andare in Cina per capire che si tratta di un’emergenza attuale, e non futura: restando alla zona gialla del virus, il bacino del Po e i bacini idrici del Nord Italia sono, ai primi di marzo, già asciutti come d’estate, con conseguenze immaginabili sull’agricoltura. E dunque: la decrescita obbligata da virus dovrebbe darci la forza di capire che è tempo di consumare di meno, di far viaggiare di meno le merci, di lavorare per un numero minore di ore e così via. Di rinunciare, insomma, a questo devastante modello di crescita infinita”. Si ritorna alle tante lezioni e proposte sull’urgenza di modificare stili di vita e modelli di produzione e commercio, sul pieno rispetto della natura (aria e sottosuolo compresi).
Mi limito solo, in conclusione, a indicare una specie di indice (in modo superficiale e alla rinfusa) di quanto ritengo urgente per andare oltre il semplice riformismo e costruire un’alternativa comunitaria socialmente avanzata. In primis si dovrebbero stoppare sul nascere i tentativi di ritornare su vecchie strade. Penso ad esempio a chi parla di ritornare al centralismo sanitario. Come affermano Balduzzi e Servetti in una pubblicazione del 2019: “il sistema sanitario regionale opera nel quadro del sistema sanitario nazionale” perciò è probabilmente “il regionalismo differenziato [che] aprirebbe a una prospettiva di possibile e probabile decostruzione del modello di tutela della salute proprio del Servizio sanitario nazionale” non tanto l’attuale gestione Regionale della sanità se correttamente intesa. E sempre Balduzzi ricordava di recente (proprio in riferimento all’attuale situazione) che “il coordinamento non è nemico dell’autonomia regionale, ma è ciò che consente all’autonomia di essere tale e non pericolosa autarchia”. Come è possibile passare dalla richiesta di poche settimane fa di “regionalismo differenziato” quale soluzione di tutti i mali all’attuale nostalgia di centralismo? Ciò che, secondo il mio modesto parere, va corretta è la scelta di aziendalizzazione di ogni struttura facendone un elemento del mercato; idem per quanto concerne i cosiddetti manager che di fatto rappresentano “il padronato” regionale ai livelli locali. La sanità, come altri servizi, non va gestita direttamente dalla politica, ma le scelte politiche non possono essere lasciate fuori dalla porta e ai tecnici.
Le novità che servono non sono contrarie al consolidamento del nostro regionalismo (che non è contro l’unità dello Stato, né per sistemi [scuola, turismo, ecc.] alla arlecchino). Serve invece rafforzare le Autonomie: “rifare la Repubblica delle Autonomie” come è stato detto. Condivido le affermazioni di Lucio D’Ubaldo che “Vengono al pettine i nodi di un modello di ‘democrazia locale’ che in questi ultimi 25 anni ha alimentato troppe illusioni. Colpa anche della elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, da cui è dipeso lo svilimento delle assemblee elettive e di conseguenza il declino della partecipazione popolare”. Abbiamo depotenziato (uso un termine misurato) le Province e non si sono rafforzati organismi di rappresentanza delle aree sub provinciali e dei territori socioeconomici, lasciando i Comuni in balia di centralismi vecchi e nuovi.
Perciò le riforme istituzionali/elettorali necessarie dovrebbero andare in direzione opposta al leaderismo, al presidenzialismo, al cesarismo; evitare sistemi maggioritari che limitano il pluralismo e un convergere che non sia forzato dalle norme elettorali; impedire limitazioni alle Autonomie che sono invece una ricchezza e, all’interno di un quadro unitario, vanno espanse il più possibile.
Il discorso sulle Autonomie richiama quello sulla partecipazione. In questi anni emarginata, ritenuta inutile. Anche perché ingabbiata in istituti ormai superati: i consigli scolastici, quelli di circoscrizione, quelli di fabbrica, (così come quelli ecclesiali – ma questo è un discorso a parte) sono ancora calibrati su periodi ormai alle nostre spalle e con una società profondamente mutata. Il principio da recuperare è che la partecipazione non significa semplicemente rappresentanza di una categoria o di una zona cittadina per proporre o rivendicare soluzioni amministrative, ma è soprattutto esercizio di democrazia, crescita politica, laboratorio e sperimentazione di novità e convivenza civile, allargamento degli spazi democratici.
Si deve inoltre aiutare la tenuta delle comunità ripensando il sistema con elementi di inclusione; con sostegni alle famiglie e politiche per la natalità, che diano vita finalmente a una politica famigliare adeguata; con il supporto alle aree più deboli del Paese. In questa ottica bisogna battere gli egoismi (rivalutando i sentimenti e gli atteggiamenti di lealtà: pagare le tasse, un sistema che aiuti a non evadere, educare alla solidarietà al rispetto dei doveri e alla responsabilità) smascherare i nullafacenti, gli opinionisti e operatori della comunicazione che spargono veleni ideologici, gli arrampicatori sociali e i maneggioni politici. C’è pure la necessità di una semplificazione legislativa e burocratica, per sostenere l’economia.
C’è poi il tema della legalità: intesa come diritti riconosciuti a tutti, e rispetto delle regole soprattutto da parte dei “più forti” e dei “più garantiti”. Vuol dire riforma carceraria: le proteste recenti sono solo la punta dell’iceberg. I diritti appartengono anche ai carcerati, mentre viviamo anni dove prevale il “buttiamo la chiave”. Interessante che quest’anno le meditazioni per la via crucis del Venerdì Santo siano state affidate dal Papa al Carcere di Padova. Legalità vuole anche dire organizzare un sistema di inclusione dell’immigrazione, vuol dire far pagare le tasse a tutti, vuol dire sconfiggere la mentalità dei favori e del vivere “a filo della legge” che ci ha intaccato un po’ tutti; vuol dire bloccare il gioco d’azzardo, attuare la Costituzione negli aspetti ancora insufficientemente sviluppati, e così via.
Non ultimo l’attenzione al tema “lavoro” (dipendente o pubblico, autonomo, imprenditoriale, in cooperative sociali o Onlus). È un argomento difficile e complesso, ma una Repubblica fondata sul lavoro, deve effettivamente garantire i diritti inviolabili a ogni persona e “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale della nazione”. Insieme al riconoscimento della parità effettiva in ogni settore.
Se come diceva Mazzini “più della schiavitù, temo la libertà recata in dono”, di questa libertà domani dovremo riappropriarci con trasformazioni che non cedano a ricette semplicistiche del decisionismo e del rigore acritico (a tutti i livelli e in tutte le salse), ma dovremo già prepararla oggi con orientamenti che allarghino gli spazi della democrazia e diano più possibilità di coinvolgimento delle persone. Non attraverso plebisciti da computer, ma con un dibattito vero e con l’utilizzo delle rappresentanze politiche (la Costituzione – ecco una delle attuazioni da realizzare – prevede che i cittadini possano concorrere a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, associazioni che vanno regolamentate).
Ultimissima considerazione: si dovrà finalmente prendere atto che sempre più dovremo ragionare come federazione europea, con decisioni comuni e coordinate, e cedendo al livello unitario parte di sovranità ancora in capo agli Stati membri. Per evitare che ragionando ognuno per sé ci si contrasti vicendevolmente, o si intervenga in modo intempestivo rispetto ad urgenze e a disastri. Come è stato in questa vicenda del coronavirus.
Carlo Baviera
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte