Lo scissionismo è lo sport preferito della politica italiana. E in particolare della sinistra. Non foss’altro che per la consuetudine della destra a cercare solo il risultato: vincere, conquistare il potere e se possibile, esercitarlo a lungo.

Ma lo scissionismo è anche cultura, antropologia, carattere. Un po’ della nazione e molto di quella parte che si autodefinisce di sinistra. Con alle spalle un mito corrotto delle origini: il congresso socialista di Livorno del 1921, dove andò in scena lo scontro fra riformisti e rivoluzionari. Con una conclusione inevitabile: di fronte al
rifiuto del partito socialista di accogliere la sollecitazione del Comintern (l’Internazionale socialista) ad estromettere i riformisti, la frazione rivoluzionaria abbandonò i lavori e diede vita al Partito comunista. Era il 21 gennaio del 1921. I “puri” avevano sbattuto la porta in faccia ai “corrotti” e avevano intrapreso il loro lungo viaggio nella storia politica del Paese. Che li ha visti per decenni coltivare l’orgoglio dell’opposizione e giungere “finalmente” nelle stanze del potere, dopo anni di consociativismo, solo dopo la morte di Aldo Moro. E con un presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, leader di un partito che da comunista si era nel frattempo trasformato in democratici di sinistra e a capo di un governo che già annoverava altre forze di sinistra, figlie di altrettante micro scissioni.

Se quella di Livorno fu la madre di tutte le scissioni, a 100 anni esatti di distanza, la storia si ripete. La vecchia sinistra (erede del Pci) e la nuova sinistra (di Grillo e Conte) a ritmo costante producono scissioni. Nelle quali non mancano mai ambizioni (fondate o velleitarie) di leaderismo, inarrestabili pulsioni massimaliste, un bisogno
quasi psico-fisico di purezza ideale, una ricerca di garanzie di verginità politica. Per finire con la versione grillina anticasta, approdo finale del giustizialismo figlio di Mani Pulite. Ma gli anticasta per eccellenza, che in nome della lotta ai privilegi della politica e sotto la guida di un comico anarcoide come Beppe Grillo e di un guru visionario
come Roberto Casaleggio hanno prima cavalcato l’onda della protesta (anche contro a sinistra) per poi coltivare il sogno di sostituirla, ora si trovano a dover fare i conti con il fantasma della scissione. La sinistra sobria e virtuosa che ha saputo conquistare ben undici milioni e mezzo di voti alle elezioni politiche con la promessa di “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, dopo tre governi vissuti da protagonista, all’improvviso deve fare i conti con il realismo. E appena si pone, attraverso Giuseppe Conte, la possibilità di trasformarsi da movimento di protesta in partito di sinistra (e di governo), ecco scattare la reazione di sempre. Il fondatore alza un muro e in nome della purezza delle origini, taglia la strada alla svolta riformista.

Ancora una volta i massimalisti scartano. Con una particolarità: come accade sempre più spesso, le scissioni si realizzano direttamente in Parlamento. Vedi la nascita, prima di Leu (Liberi e uguali) in odio a Matteo Renzi e poi di Italia Viva per mano dello stesso fiorentino, contro il Pd. E così forse sarà con il partito di Conte che potrebbe nascere direttamente in Parlamento, con un poderoso drappello di eletti grillini. Se questo accadrà, dopo le fibrillazioni di questi giorni, potremo aggiungere un altro ramo nell’albero genealogico della sinistra italiana piantato a Livorno nel 1921. Che i rami più giovani siano quelli di un comico visionario oltre che di un avvocato di origini foggiane, è solo un dettaglio.

Tutto questo in attesa della scissione prossima futura. Quasi una “dannazione”, come l’hanno vissuta molti spiriti liberi della sinistra italiana. Di sicuro, una coazione a ripetere che la dice lunga sui nostri vizi nazionali. Perché quando sbagliamo lo facciamo in grande e poi perché, individualisti come siamo, pensiamo che le nostre idee e le nostre soluzioni siano sempre le migliori. Perché siamo specialisti nella ricerca della nostra “diversità”, perché siamo per natura diffidenti, perché facciamo una fatica terribile nel cercare le cose (forse noiose) che ci uniscono mentre ci
battiamo tenacemente per quelle che ci dividono (mediamente più divertenti). Se ci pensate bene, è esattamente tutto il contrario di quello che fanno le democrazie occidentali con la loro partizione in democratici e repubblicani, in progressisti e conservatori. Semplificazione? No, tutt’altro: capacità di far convivere le differenze nel proprio campo. Anche a costo di mordersi la lingua per non rinunciare alla propria casa politica. Ma a noi italiani piace moltissimo farci una casetta politica tutta nostra. Speriamo che la storia e gli italiani di domani sappiano perdonarci.

Domenico Delle Foglie

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