Miseramente afflosciato lo spettro del comunismo, perché nessun vento della Storia ne agitò più il lenzuolo, un nuovo spettro, questa volta più gentile, si aggira per l’Europa: quello dell’inclusione. L’aggettivo “inclusivo” molesta, ormai, ogni sostantivo possibile e, spesso, si muove accompagnato dall’amico “sostenibile”.

Nessun documento ufficiale, laico o pontificio, istituzionale o politico-partitico, confindustriale o sindacale, sfugge alla tirannia della neolingua del politically correct. Perciò non è parso vero agli adepti della neo-religione dell’inclusione potersi avventare, mossi da sacro fuoco, contro una recensione di Ernesto Galli della Loggia, poi rivista e allargata ad editoriale, nel quale lo storico criticava l’attuale politica scolastica dell’inclusione.

La sua tesi è che mettere nella stessa classe gli studenti con Bes (portatori di Bisogni educativi speciali), quelli con Dsa (sofferenti di Disturbi specifici dell’apprendimento), i disabili, spesso molto gravi, e gli immigrati, senza conoscenza della Lingua italiana, ben lungi dal garantire percorsi di inclusione, aggrava i meccanismi di esclusione, cioè, in primo luogo, la dispersione scolastica. A Galli della Loggia è piovuta addosso una valanga di accuse, la cui sintesi è: vuole tornare alle classi differenziali, in nome dell’abilismo e del razzismo. Insomma: suprematista bianco.

Classi-container ed esclusione

Eppure, “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi”. Così scrisse don Lorenzo Milani, riferimento fondamentale di tutti gli inclusivisti. J. Rawls non avrebbe potuto dire meglio.

E sempre don Milani: “la scuola è di tutti, se la scuola è di ciascuno”. Stoccare questo eterogeneo melting pot in un’unica classe-container, offrendo contemporaneamente e indistintamente ai singoli gli stessi contenuti cognitivi, applicando univoca metodologia, sottoproduce un effetto visibilmente immediato: taglia la testa e la coda dell’insieme.

Quelli in testa si annoiano e guardano il cellulare, quelli in coda fanno lo stesso, ma alla fine dell’anno se ne vanno e non tornano più. Così gli Istituti scolastici sono diventati “macchine dissipative” di intelligenze e di forze produttive umane. Macchine entropiche. Nel 2022 la quota di ELET (Early Leaver from Education and Training) e di NEET (Not in Education, Employment or Training) era dell’11,5%, la media europea è del 9,6%. Gli Early School Leavers tra gli stranieri arrivano al 35,4%: è il dato più alto d’Europa. Nel frattempo cresce il numero di scuole a maggioranza di immigrati.

Centralismo e personalizzazione

Da anni si aggira tra noi un altro fantasma: quello della personalizzazione. Prima si chiamava “individualizzazione”. Ma poiché alludeva all’individualismo, allora fu ribattezzato più correctly. Il termine fui poi adottato internazionalmente dal Rapporto “Education at a Glance” di OCSE-PISA del 2006, intitolato “Personalizing Education”. Gli Usa ne hanno fatto l’idea-guida del “United States National Education Technology Plan” del 2017.  “Personalizzazione” vuol dire che si ritaglia per ciascun ragazzo il suo vestito formativo, ovviamente nel quadro di un “National Curriculum”, che a sua volta deve essere elaborato e aggiornato alla luce dello stato del mondo e della civiltà che si vuole trasmettere alle giovani generazioni. Nel dibattito italiano è ormai condimento normale della retorica dei pedagogisti.

Peccato che la struttura del sistema di istruzione sia totalmente estranea e ostile alla personalizzazione. Non per malvagità, ma per DNA. La ragione è che le classi scolastiche sono formate sulla base dell’orizzontalità anagrafica. Il criterio è quello dell’esercito. Stessa età, stessa classe. Sulla cattedra della classe si avvicendano gli insegnanti delle discipline, secondo un numero di ore previsto nazionalmente: tot ore di Italiano, tot di Matematica, tot di Storia ecc…

È il modello centralistico franco-prussiano, che Gabrio Casati adottò nel 1859, che Gentile ha razionalizzato nel 1922/23, che la Repubblica ha tranquillamente riproposto. E se davanti agli insegnanti siedono dei ragazzi con livelli cognitivi, bisogni, inclinazioni, abilità diverse? Non importa nulla. La minestra è la stessa per tutti. E se a me non piace? Sono obbligato a ingoiarla tale e quale nell’estate dei debiti o, se non è stata apprezzata, si torna all’anno successivo oppure si cambia classe, indirizzo di studi o si esce dal sistema. Se non ti piace quest’anno, ti obbligo a rimangiarla nel corso dell’estate prossima e, se hai dimostrato di non apprezzarla, l’anno prossimo: ripeti! Se proprio non ti piace, cambi classe, indirizzo di studi o esci dal sistema, semplicemente. Come si vede, è il modello come tale che produce esclusione, perché troppo rigido per adeguarsi ai percorsi formativi dei singoli: tocca ai singoli adeguarsi al modello. Il mis-matching che ne deriva genera dispersione e fuga. La dispersione è un prodotto della scuola, non della società.

Classi variabili, cattedre fisse

C’è un altro modo di organizzare il sistema? Oggi la classe è fissa, variano le cattedre. In un modello scolastico di personalizzazione, la cattedra è fissa, la classe varia. Lo studente costruisce un proprio piano di studio, con l’aiuto decisivo di un tutor – ne parlo più avanti – e si reca alle cattedre in base alle sue necessità formative, ai tempi del suo sviluppo intellettuale, ai mutamenti del mondo “là fuori”.

Se ogni studente segue un proprio piano di studio personalizzato – il famoso PSP – la classe biografica si scompone in molteplici gruppi di livello. Se per ogni disciplina si costituiscono, supponiamo, tre gruppi di livello, Emilio – chiamiamolo così! – può trovarsi al livello 1 in Italiano, al livello 3 in Matematica, al livello 2 in Storia. Il rischio che Emilio si chiuda nella torre d’avorio dei “Numeri 1” non esiste. È un alibi agitato in nome della conservazione dell’esistente.

Tuttavia, il rovesciamento istituzionale-organizzativo-amministrativo sopra descritto non è possibile senza l’istituzione di una nuova figura formativa: il tutor. Partiamo dalla scuola di base. C’è qualcuno a scuola che “accoglie” Emilio?  Qualcuno che faccia un’analisi del livello di conoscenza della Lingua e che conosca l’ambiente familiare e sociale da cui Emilio proviene? Nessuno.

Emilio si trova collocato in una classe e lì incomincia il suo cammino solitario. I maestri/e hanno fatalmente un raggio di conoscenza sociale occasionale e limitato. E c’è qualcuno che svolga questa funzione nella scuola secondaria di primo grado, dove, già a partire dal secondo anno, incominciano i processi di dispersione? No. Qualcuno che, tenendo un rapporto stretto con Emilio, con i suoi insegnanti, con la sua famiglia, lo aiuti a mettere insieme un Piano di studi, ne verifichi con lui la realizzazione, ne suggerisca e ne concordi le modifiche in itinere?

Il Decreto Valditara

Il Ministro Valditara, dopo aver considerato, come tutti i Ministri precedenti, le insormontabili resistenze dei sindacati, dei partiti, dell’Amministrazione ministeriale – forse della società italiana? – ad ogni ristrutturazione radicale del sistema scolastico, preso atto che le mura non si possono abbattere, ha provato ad aprire una breccia. Donde il D. M. n. 63 del 5 aprile 2023, nel quale è previsto l’ingaggio di circa 40 mila docenti quali tutor e orientatori, che aiuteranno gli studenti delle circa 70.000 classi dell’ultimo triennio delle Scuole secondarie di II grado. Non si tratta di nuove assunzioni. Potrebbe accadere che questo Decreto avvii una nuova pratica pedagogica e formativa. Rimanendo chiaro, ahinoi, che o questa mini-riforma riesce ad avviare la trasformazione istituzionale del sistema o finirà come le altre nel cestino della carta straccia.

Giovanni Cominelli

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