Questo intervento di Aldo Bonomi è del 2017, ma lo riproponiamo perché presenta un’attualità del tutto eccezionale
Mi aiuta la profondità della relazione che mi ha preceduto, perché per dare risposta e arrivare a ragionare di comunità, due categorie che sono state usate precedentemente, secondo me, sono fondamentali: quella di spazio e tempo; e la seconda, quando la dottoressa ha detto – cosa che condivido in pieno – che c’è una dimensione di cambiamento. Lei l’ha fatta risalire alla data del 2009 quando abbiamo formalizzato la crisi, che emblematicamente inizia con il fallimento della Lehman Brothers, a New York. Mi pare che questi sono due punti su cui ragionare per arrivarea sviscerare, a ragionare sulla comunità e quindi sul chinarsi o sull’inchinarsi alla potenza della tecnica. La precedente relazione infatti ha sviluppato questi due aspetti: chinarsi sul malato oppure inchinarsi alla potenza della tecnica. Io non sono un medico, credo di essere qua per due accidenti: una perché con Monsignor Bressan partecipo al Comitato che accompagna i Dialoghi sulla vita buona con Cacciari, e l’altra perché sono molto amico e mi occupo dei temi della Caritas e dei migranti con Gualzetti.
Partirei dai Dialoghi della vita buona e da una tematica che Monsignor Bressan ha evocato: il salto d’epoca. Per ragionare del salto d’epoca attorno ai Dialoghi della vita buona abbiamo preso in considerazione alcune parole chiave che stiamo scomponendo e ricomponendo. La prima parola chiave è confini, che rimandano al grande salto d’epoca che non riguarda più solo quella che, ormai con retorica, chiamiamo la globalizzazione, ma il cambiamento e il mutamento geo-economico e geo-politico che ci circonda. Primo round. Secondo passaggio: abbiamo preso in considerazione che cosa è oggi l’essere in comune, la comunità e il suo grande cambiamento. Terzo tema: il mutamento dei confini. Il tema della crisi dell’essere in comune assume la figura e il volto emblematico del migrante e del profugo. Quarto tema: naturale e artificiale, che è il tema anche di oggi: inchinarsi alla potenza della tecnica o inchinarsi sulla persona? Io lo declino con una mia terminologia. Viviamo un’epoca dove convivono contemporaneamente la potenza della tecnica che lavora sulla nuda vita – intendendosi per nuda vita il nostro pensare, comunicare, ricordare – e parlo delle nuove tecnologie che scavano dentro i grandi processi di comunicazione, dell’intelletto e delle relazioni dell’uomo. Contemporaneamente appare la vita nuda delle persone, che assume a volte la figura dello scarto: i poveri che non hanno da mangiare, da vestire, la casa. E dentro questo il corpo che nella ricerca diventa merce su cui si può applicare la sperimentazione e il lavoro. Il salto d’epoca è questo.
Il salto d’epoca produce in primo luogo la percezione che non siamo dentro una transizione. Per capirci, prendendo la data del 2009 precedentemente segnalata, la crisi non significa che abbiamo una transizione rispetto alla quale torniamo poi a un modello precedente. Il salto d’epoca e la crisi significano che siamo dentro un processo di metamorfosi. Questo è il punto. E la metamorfosi, detta con il mio linguaggio, produce quello che un grande antropologo, Ernesto De Martino, definiva l’apocalisse culturale, intendendosi per apocalisse culturale il non riconoscerci più in ciò che ci era abituale. Questo è il primo grande effetto del salto d’epoca e dei grandi processi di cambiamento. Se vogliamo ragionare in termini di società, in maniera molto breve, noi siamo passati da una dimensione del novecento, nella quale il paradigma fondamentale era il capitale, il lavoro e lo stato in mezzo; era la statualità che produceva welfare, servizi, clinica e ovviamente il rapporto capitale/ lavoro era la dialettica che rapportava i grandi processi. Il novecento è così.
Ma, a proposito di spazio, il nuovo paradigma dentro il quale siamo, e dove va collocata la questione della comunità, è che siamo di fronte a un processo nel quale vi sono i flussi che impattano nei luoghi, li cambiano antropologicamente, socialmente, economicamente, culturalmente. E in mezzo riappare una dimensione del territorio come geo-politica e come geo-economia, ma anche come luogo delle relazioni da ricostruire. Per uscire dal “sociologese” permettetemi di elencare che cosa sono i flussi. La finanza è un flusso. Ad es. ritornando a quella data evocata dagli scatoloni della Lehman Brothers, nessuno pensava che gli scatoloni che uscivano dalla banca di New York avrebbero significato immediatamente il cambiamento della Banca di Credito Cooperativo di Barlassina, il cambiamento dei mutui e del rapporto tra quella Banca e quel territorio. Nessuno pensava che fosse possibile questa simultaneità, perché tutti eravamo legati a un meccanismo di prossimità. Se la finanza è un flusso, anche le transnazionali sono un flusso. Tanto è vero che si ridisegna il mondo, non solo la sanità in Lombardia, connettendo nodi di rete. Le internet company sono un flusso che impatta nei luoghi, nell’antropologia, nella comunicazione, ecc. Le stazioni fondamentali di ricerca e sviluppo, anche nel vostro campo, sono un flusso di nodi di rete. La relazione precedente ha ovviamente ragionato su come chi sta dentro, e si china sul paziente, si rapporta con quei nodi di rete che producono la grande ricerca. Tanto è vero che appaiono testi titolati “La connessione della geografia” che disegnano il mondo in base alla connessione di questi nodi di rete. Le migrazioni sono un flusso che impattano nei luoghi, li cambiano antropologicamente, culturalmente e li mettono a confronto sui grandi temi, ad esempio delle religioni.
Quindi flussi e luoghi rappresentano il nuovo paradigma che rimanda a un salto d’epoca, per cui tendenzialmente noi che eravamo abituati alla prossimità siamo immersi e sfidati alla simultaneità. Sempre facendo riferimento alla relazione che mi ha preceduto, molto più vicina alle vostre competenze e alle vostre specializzazioni, il problema è che non basta più la prossimità di avere cura e di chinarsi sul paziente. Ma il vero problema diventa come questo lavoro di cura si rapporta alla simultaneità che esso impatta rispetto ai grandi cambiamenti che avvengono. Quindi prima grande questione: io non credo che dentro questo salto d’epoca la risposta si limiti solo ed esclusivamente ad avere nostalgia della prossimità o a rinserrarsi nei luoghi rispetto ai flussi. Io ritengo che il problema sia come ci si mette in mezzo alla potenza della tecnica, alla potenza della finanza, come ci si mette in mezzo alla potenza delle transnazionali, come ci si mette in mezzo alle migrazioni.
Come ci si mette in mezzo tra flussi e luoghi, quindi, sviluppando un concetto: qui arrivo alla comunità e userò una parola forse per voi poco digeribile. Costruire la comunità come un artificio adeguato dentro la ipermodernità che viene avanti, e non come un dato naturalmente dato. Intendendosi per un dato naturalmente dato la comunità a cui noi eravamo abituati, che era la comunità data ovviamente dalla relazione di prossimità, dalla famiglia ecc. Questo è il punto: rispondere con la nostalgia o capire i processi entro i quali siamo e la costruzione di questi processi? Per continuare il ragionamento sulla comunità, infatti, ritengo che bisogna far riferimento a quella filosofia critica – non critica nei confronti della comunità – che ha reso attuale il pensiero della comunità dentro la ipermodernità. Non a caso Jean Luc Nancy dice la “comunità inoperosa”. Nel rapporto tra flussi e luoghi la comunità è inoperosa. Vincono i flussi, perdono i luoghi, se volete essere schematici. La comunità non ce la fa a reggere questa dimensione. Nel rapporto tra flussi e luoghi, dice Agamben, bisogna ragionare sulla comunità che viene. Quale è la forma della comunità adeguata rispetto a questi grandi processi, cioè a tecnica, migrazioni ecc., quale è la comunità che viene? Basta il nostro ricordo della comunità o il nostro affetto alla comunità di paese, tipo Gorino, per affrontare le migrazioni? Mi ha colpito molto una espressione di una signora intervistata a Gorino che diceva “ Voglio mantenere il mio paese pulito”, perfetto, lindo. Il che rimanda a un concetto filosofico molto importante a proposito di comunità, sviluppato dal mio amico Roberto Esposito, quando dice che bisogna coniugare communitas e immunitas, cioè una dimensione della comunità che a volte tende a rinserrarsi per immunizzarsi, come medicina, non c’è dubbio. Communitas e immunitas: in questo voler tenere pulito il paese c’era tutto il discorso di immunitas e non di communitas. La filosofia moderna ci dice che mai come oggi la parola comunità è attualità di ciò che sembrava inattuale, nessuno ne parlava più, eccetto alcuni che stavano dentro il profondo della comunità, della fede. Oggi la comunità diventa attualissima dentro il meccanismo della ipermodernità. Quindi il primo dato a cui vi invito è di ragionare e di porvi il dubbio sulla dissolvenza della comunità. Non esiste più quella comunità che tra ‘800 e ‘900 ha attraversato un secolo. Siamo tutti un po’ spaesati. Io ho definito questa terra laboriosa la “città infinita”. Se andate dall’aeroporto di Malpensa a Orio al Serio avete tutti i paesi denominati. Ma se attraversate la Brianza è un continuum di città infinita. Poi ciascuno cerca la ragione antica del luogo che dà identità, ma si è dentro la città infinita. Non esiste più la dimensione di paese come un tempo.
Capire questo non significa negare la comunità in nome di un individualismo compiuto, significa porsi il problema di come si re-immette un processo di comunità. Occorre partire dalla crisi, dalla dissolvenza di questo fenomeno. I dialoghi della vita buona partono dalla crisi dei grandi processi per ricostruire dialoghi di vita buona, cioè una prospettiva. Ma partiamo dalla crisi! Dalla crisi dei confini, dell’essere in comune, partiamo dalla crisi data dalle migrazioni, dalla crisi data dalla potenza della tecnica, del “chi controlla chi”. Partiamo dalla crisi per re-immettere dentro un desiderio di speranza. Tanto è vero che io parto da qualcosa che non si è mai spento e che Bauman chiama “ voglia di comunità”. Nella persona c’è voglia di comunità, voglia di essere in comune. Non c’è potenza della tecnica, non c’è community che sostituisca nella persona la voglia di comunità, esigenza insopprimibile dell’essere. La persona è voglia di comunità, voglia di essere in comune.
Ma se si vuole leggere la dissolvenza della comunità e i processi collettivi dal punto di vista della voglia di comunità, io ne ho individuati tre.
Primo. Non è vero che la voglia di comunità è sempre buona in sè. C’è una grande voglia di comunità che si aggrega in quella che io chiamo la “comunità del rancore”. La comunità contro l’altro da sè. Gorino è un esempio di una comunità del rancore, il rinserrarsi contro l’altro che ci prende quando siamo in preda alla paura e all’incertezza del futuro. Abbiamo oggi una presenza forte della comunità del rancore, che molto spesso è fatta di nostalgia, e significa rinserrarsi e chiudersi.
Per fortuna c’è la “comunità di cura”, in cui cura e persona si pensano come un pezzo fondamentale della comunità di cura. La comunità di cura è variamente intesa sociologicamente: volontariato, associazionismo, imprese sociali. Ma la comunità di cura non è solo questo. La comunità di cura è fatta da tutti coloro che per professione producono relazione e inclusione. E quindi io ritengo che tutta la serie di professioni del ‘900, standardizzate dentro il ciclo del welfare, sono pezzi fondamentali della comunità di cura. Far bene l’insegnante è un pezzo fondamentale della comunità di cura. Significa accompagnare, educare dentro, immettere. La relazione che mi ha preceduto è parte fondamentale di chi dice “io sono un pezzo della comunità di cura”. Inchinarsi sul paziente è un pezzo della comunità di cura, come chinarsi sul microscopio, ma le due cose devono stare assieme. Fare lo psicologo, lo psichiatra, fare il sociologo che fa ricerca sociale, e non solo marketing pubblicitario per le imprese, significa sentirsi dentro la comunità di cura. Ritengo che anche le forme di rappresentanza della politica del ‘900 dovrebbero, in un’ottica di cambiamento, pensare di essere un pezzo della comunità di cura. Se discuto con la Camusso posso dirle che il sindacato se cambia, se non si percepisce solo come un pezzo d’organo che rappresenta i medici, gli infermieri o le corporazioni, ma si concepisce come mutualismo, auto-organizzazione, allora è un pezzo della comunità di cura. Quindi la comunità di cura è un vasto bacino dove sta dentro la voglia di comunità: la voglia di comunità non precipita nel rancore, qui la voglia di comunità va nella cura. Quando la comunità di cura si percepisce come l’esercito dei “ buoni e i bravi” – il ritorno dei buoni e bravi…-, noi ci percepiamo come i buoni.
Ma ogni volta che i buoni si sono confrontati con il rancore ha sempre vinto il rancore. Quindi il problema è come, oltre alla comunità di cura e alla comunità del rancore, si possa ragionare su una terza polarità, che è la “comunità operosa”. Se posso farvi riferimento, giustamente papa Francesco ragiona della società dello scarto, ma nello stesso tempo nella Laudato sì propone un modello di sviluppo operoso che aiuta la cura e stempera il rancore. Questo è il punto vero. Quindi anche le dimensioni dell’operosità dell’economia e dei modelli di sviluppo sono fondamentali.
Ne aggiungo una quarta. In un confronto con Eugenio Borgna, dialogando con lui e scrivendo un libro, mi ha fatto notare: “il tuo tratto sociologico funziona perfettamente: rancore, cura, operosità. Però io aggiungo che tutto questo, la voglia di comunità, non si dà se non ci si percepisce dentro una ‘comunità di destino’ fatta dal riconoscersi e riconoscersi nel disagio e nella sofferenza dell’altro”. Sono totalmente d’accordo, tanto è vero che quel libro il cui titolo per me era “Depressi di tutto il mondo unitevi” è diventato “Elogio della depressione”, come luogo dell’incontro, come inchinarsi sul paziente, luogo della relazione. Non c’è dubbio che il problema è occuparsi, secondo me, non solo della cura e dell’operosità.
Credo che una delle grandi questioni, per il divenire, sia il tema non di leggere la dimensione del rancore come altro da noi. Io credo che nei prossimi anni la vera grande questione della comunità sarà come si svuota la comunità del rancore, come ci si occupa degli impauriti. Noi tendenzialmente crediamo di chiuderci nella nostra comunità di riferimento. Il problema vero è che dentro il salto d’epoca, lo spaesamento, per citare Simone Weil, che significa letteralmente rimanere senza paese – e Simone Weil aggiungeva “chi è sradicato, sradica” -, il problema è costruire una società, una comunità che viene e contemporaneamente occuparsi del rancore e del disagio. Ho fatto una ricerca sul tema e sul progetto del Cardinale, il “Fondo Lavoro e Famiglia”, e anche li ho trovato spesso, tra gli operatori della Caritas, alcuni che dicevano: ”ma perché i fondi a quelli là”. Svuotare quella paura è fondamentale per costruire la comunità che viene.
Allora spiego perché il darsi comunità è un artificio. In primo luogo: riconoscere e riconoscersi nel disagio, nella sofferenza e nella malattia dell’altro, variamente intesa. Fatta questa operazione di riconoscimento, il problema è costruire la comunità che viene adeguata ai tempi, mettendosi in mezzo al salto d’epoca e ai flussi e ai luoghi. Perché, se vogliamo ragionare di comunità e anche di società, noi siamo di fronte a due cicli che sono finiti: il ciclo del fordismo, che aveva prodotto la società verticale ove il punto era l’ascensore o il conflitto. Infatti i figli del ‘900 hanno usufruito dell’ascensore sociale per cui i genitori ti mandano all’Università e oggi fai una conferenza. Questo meccanismo è rotto, l’ascensore non funziona più. Dopo quel modello è venuta avanti la società orizzontale di cui i brianzoli conoscono tutto. Ha prodotto una antropologia diffusa caratterizzata da capannone, villetta, giardino e BMW in garage. E si entrava dentro la società o facendo impresa o facendo la partita IVA. Oggi noi siamo entrati nella società circolare, dove c’è il paradosso in cui tutti siamo educati alla economia circolare, quella che riguarda il riciclo dei nostri rifiuti, per cui ciascuno fa la raccolta differenziata per essere dentro il ciclo della società. Ma il vero problema è che non ci occupiamo di come “riciclare” gli scarti sociali che sono povertà e migranti. Questa è la contraddizione folle di una società, che ha sviluppato il massimo rispetto al problema industrioso, al riciclo ecc. Infatti la chiamiamo economia circolare. Ma il vero problema come costruiamo la “società circolare”.
Concludo con il termine sussidiarietà. Come si costruisce la società circolare? Agli ultimi dialoghi di Bertinoro, con Zamagni abbiamo ragionato intorno alla sussidiarietà circolare. La sussidiarietà intesa come meno stato e più società porta a una economia circolare o a una società di cura che si occupa in alternativa dei migranti ecc.? No, noi mettiamo la sussidiarietà circolare in mezzo, tra i flussi e i luoghi: quindi il vero problema è ricostruire comunità e tra economia e politica rimettere in mezzo la società.
Questo è il nodo vero, che è la grande questione del futuro. Perché o tu rimetti in mezzo la società tra i flussi e i luoghi, nelle sue varie articolazioni, oppure il tuo destino è quello di essere egemonizzato dai flussi e restare così ancorato ai luoghi.
Aldo Bonomi