Ogni stagione della vicenda europea dal secondo dopoguerra è stata accompagnata da statisti, da figure di riferimento politico e, ad un tempo, morale di grande rilievo: De Gasperi ed Adenauer, De Gaulle, Aldo Moro, Willy Brandt ed Helmut Schmidt, Margaret Thatcher, Jacques Delors ed ancora Khol, Mitterrand, la stessa Angela Merkel.
Anche oggi avremmo bisogno di uno statista, figura che nulla ha a che vedere né con il “capo carismatico” né con l’ “uomo forte”.

Al contrario, lo “statista” è, anzitutto, rivestito del consenso popolare e sa cogliere il punto di inserzione tra quel particolare momento ed il più vasto processo storico che lo contiene e, nel contempo, trascendendolo, gli conferisce il suo significato più pertinente. Ha una visione che unisce, radicata in una cultura, in una storia, capace di indicare una prospettiva di lungo termine che alimenti l’attesa, la speranza e sia in grado di assorbire e comporre nel suo orizzonte anche aspirazioni e progetti che derivino da altri contesti ideali. Insomma, è uno che ha il fiuto della storia e sa decifrarne il vettore, la direzione di marcia, l’intensità e la natura delle forze che ne sospingono il cammino.
Capace, soprattutto, di motivare e dunque creare, nei momenti in cui sono in gioco gli interessi vitali di una comunità, un fronte comune, solidale e compatto. Oggi, a volerlo cercare in ogni direzione, uno “statista”, uno stratega europeo di tale portata non lo si intravede. E dire che ne basterebbe uno solo che sia effettivamente tale per curvare l’intero spazio della politica europea verso un protagonismo virtuoso e coerente con le aspettative di pace che sono il fondamento dell’Unione.

Nel frattempo, almeno 300.000 ucraini sono entrati, attraverso la Polonia, nei territori dell’Unione Europea, dove sta nascendo una catena di grande solidarietà che mobilita figure professionali di ogni genere, desuete in altri scenari, ad esempio avvocati tedeschi volontari che assistono i profughi nelle pratiche relative ai visti di ingresso. Numeri significativi simbolicamente, per quanto ovviamente modesti a fronte di una popolazione ucraina di 40 milioni di anime. Peraltro, Bruxelles stima almeno dai cinque ai sette milioni i profughi attesi di questa vera e propria “diaspora” ucraina.

E’ soprattutto importante osservare come la pressione degli eventi e questo nuovo fermento migratorio stiano, di fatto, configurando lo spazio, nel segno di un’accoglienza solidale, di una sostanziale “cittadinanza europea”.
Come fatto originario e spontaneo che ha l’autenticità e la legittimazione di ciò che, nel segno del valore morale che lo muove, è sovraordinato ad ogni considerazione contingente. Non costruito ad arte, secondo un’opzione politica, come fosse un artefatto sia pure di pregevole ingegneria giuridica, ma che, piuttosto, nasce – come si dice comunemente, ma in modo improprio – “dal basso” o meglio da una forza, da una necessità intrinseca alla natura di quel particolare frangente storico. Il quale, evidentemente, già contiene questa istanza, che, sia pure ancora inespressa, non attende altro che l’occasione propizia per manifestarsi.

Non possiamo disperare dei destini dell’umanità finché osserviamo, anche sul piano della collettività, quel che riluce nella vita di molte persone singole quando la sonda penetrante di una sofferenza intollerabile, soprattutto quando si tratta non della propria, ma della sofferenza dei figli, smuove nell’ interiorità più profonda, altrimenti insondabile di ognuno, forze impensabili, sconosciute a chi addirittura si sorprende di viverle o, quasi, di esserne vissuto. Non sta forse succedendo una cosa del genere anche nella coscienza degli europei? Anche dell’Europa, dunque, non possiamo disperare. Non si ha forse -osservando tutte le cautele del caso, senza precipitare giudizi ancora incerti- l’impressione che, come fossimo in una sorta di “rinascimento”, si vada formando, lungo questo percorso di condivisione e di solidarietà con la sofferenza dell’ Ucraina, un “popolo” europeo?

Un fuoco di paglia, il sommovimento di un’ onda emotiva destinata ad esaurirsi oppure qualcosa di più, di vero, di consistente che trae dalle ceneri del l’inerzia, il cuore ancora pulsante di un destino comune che riappare alla coscienza di molti? Un “popolo” autenticamente si forma non quando una collettività si riconosce in una nuda e cruda pluralità d’interessi materiali, o sia pure di dimensioni culturali condivise, bensì allorché un percorso di comunione e di reciprocità, la coscienza di un orizzonte e di una speranza che appartengono a tutti e a ciascuno, trova le proprie radici in un’istanza morale di fondo.

Un processo del genere che davvero dovesse avviarsi non dev’essere abbandonato a sé stesso; ha bisogno di essere curato, protetto, nutrito, sostenuto perché assuma in proprio, nella sua dimensione collettiva, quella funzione di indirizzo strategico di cui si diceva.

Domenico Galbiati

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