( a partire da alcune  riflessioni di Romano Guardini)

Le difficoltà che ostacolano la ricerca della pace nella questione ucraina, persino di fronte a segnali evidenti di stanchezza soprattutto dell’ aggressore russo, sono ormai inquietanti. Anche una certa, esibita, indifferenza alla grande manifestazione romana del 5 novembre non è rassicurante.  Nessuna risposta mi pare sia arrivata dalle autorità alle concrete richieste dei manifestanti di Roma, a parte i riconoscimenti formali. La pervicacia e la cecità che si possono rilevare in tanti pubblici discorsi che contengono una difesa ostinatissima delle ragioni della guerra in sé ed una altrettanto ostinata  svalutazione di quelle della Pace ( sempre più considerata utopia, o prospettiva da rinviare ad un indeterminato futuro, di fronte alla via unica della debellatio  finale come premessa della pace ), richiedono riflessioni più ampie, che concernono i paradigmi mentali che segnano il  background culturale antropologico ed etico entro cui ci muoviamo.

Credo che si tratti di questo: stiamo davvero entrando in un’epoca nuova, entro una di quelle epoche catastrofiche, o di “barbarie al futuro”, quella che sinora solo il cinema horror ogni tanto ci proponeva? Stiamo entrando cioè entro un’epoca non di crisi, ma di catastrofi inevitabili, o solo parzialmente evitabili, cioè entro una “società dei rischi crescenti” e soprattutto entro una società “senza futuro” e “senza progettualità”, in cui, realisticamente, sarà sempre più inevitabile “convivere” con qualche tipo di guerra, di pandemia, di disastro ecologico, di catastrofe migratoria, di collasso finanziario ed economico, di moderne carestie, di miseria dilagante ? Alcuni studiosi e scienziati  hanno già provveduto- con insolita solerzia- a classificare col termine “antropocene”, questa nuova epoca, in cui il mondo rimodellato dall’uomo e dalla sua impronta diviene una realtà ipertecnologizzata( caratterizzata da intelligenze artificiali, cose intelligenti e persone ridotte a numeri o cose), paradossalmente difficilmente guidabile da volontà e scelte umane. Una realtà che presenta la prospettiva di una “ dissoluzione della progettualità e del futuro stesso” ( Federico Vercellone, Così la storia ci sfugge dalle mani è il paradosso dell’ antropocene, p. 28, La Stampa 31 ottobre 2022).

Un’epoca disumanizzata prodotta dall’uomo non sarebbe certo una novità. La novità sta invece nel fatto della inevitabilità che implicitamente le si attribuisce, per cui l’ “impronta umana” mediata da una potenza tecnologica ormai fuori controllo, sarebbe un elemento destinato ad annientare ogni prospettiva storica, di miglioramento umano, collettivo ed individuale, progettato dalle persone in carne ed ossa e misurato sui loro bisogni effettivi, non sulle crescenti potenzialità della tecnica.

Sarebbe un’epoca in cui all’idea di un “fine” umano della storia, si sostituisce l’idea del rischio di una possibile “fine”, che non ha più nulla in comune con l’idea di compimento e di piena realizzazione, per ridursi ad una sorta di catastrofe finale che “chiude il tempo storico senza inaugurarne uno nuovo” ( F.Vercellone, Così la storia ecc. cit.) e che condanna i singoli e le società all’impotenza assoluta di fronte a una forza anonima e senza volto che domina il mondo.

C’è allora una prima osservazione da fare su una   mutazione culturale ed antropologica già in atto, tanto enorme e tanto onni-pervasiva che non riusciamo neppure a discernerla, se non in qualche manifestazione parziale o secondaria.  E c’è anche un paradosso “rivelatore” che emerge nel dibattito pubblico e che ci può aiutare a “vedere” ed a capire meglio  il senso di questa mutazione.

Si è accettata, quasi da parte di tutti ormai,  l’idea che la natura in cui viviamo sia un sistema complesso di beni indisponibili, perché limitati in quantità e non riproducibili, vincolati nell’utilizzazione in quanto esauribili. Abbiamo scoperto che non possiamo vivere entro una “natura non naturale”, che non funzioni secondo i propri principi. Abbiamo scoperto che non possiamo portare al collasso l’ecosistema.  Abbiamo scoperto che dobbiamo ripristinare questo sistema naturale, di cui noi eravamo i custodi, non  i padroni.    Quindi è necessaria  una transizione ecologica che ripristini quell’equilibrio. Una transizione che non può essere ovviamente che competenza di tecnici e scienziati.

Ma, ed è qui il problema, ci sfugge un aspetto: come e perché si è generato questo squilibrio? E quindi cosa può pertanto impedire che un nuovo e diverso squilibrio si ristabilisca ancora?  Il disastro ecologico è stato in realtà causato non da una mancanza di conoscenze scientifiche, non da pura ignoranza, come banalmente si dice ( dovete ascoltare gli scienziati!) ma da una logica interna al potere umano ed alla conoscenza umana. Non a caso il disastro ecologico si è contornato di altri disastri, quello finanziario, quello energetico e quello dell’ordine internazionale, sempre più compromesso dalla guerra.

In effetti questa logica del potere non riguarda solo la natura.  I vincoli della natura sono stati  violati perché il sistema di vincoli non era contemporaneamente operativo per tutto ciò che definiamo  “umano”. Si è erroneamente pensato che nel “regno della libertà umana” i vincoli non avrebbero alcun senso-. Chi potrebbe fissare nuove  “colonne di Ercole” che fermino il “volo” audace del progresso scientifico? Perché fermare il “volo” del nuovo Ulisse?

Un grande pensatore come Romano Guardini, già settanta anni fa, aveva però intuito un nesso profondo tra  ciò che lui definiva un “uomo non umano” e una “natura non naturale” ( R.Guardini, La fine dell’epoca moderna, p. 85). Guardini si era accorto del rischio che l’ “uomo- non- umano” possa  produrre una “natura -non- naturale”.    Noi non colleghiamo più i due aspetti tra loro. E l’errore che si compie evitando di vedere il collegamento tra sistema naturale e mondo umano, tra uomo e natura, è di una semplicità sconcertante.

“ Si pensa che la materia del mondo , nel momento in cui entra nella sfera della libertà, si trovi al sicuro come nella sfera della natura . Come se si producesse una natura di secondo grado , a cui ci si può affidare, come ci si affida alla prima natura, seppure in forma più labile e complicata” (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna  p. 84, 85).

Abbiamo cioè semplicisticamente pensato che l’uomo e le sue conoscenze scientifiche possano solo produrre maggior sicurezza e maggiore efficienza, intervenendo sulla natura. In realtà i rischi crescenti della scienza umana esistono ed hanno una radice precisa.

Riprendiamo ancora l’esposizione di Guardini:

“….L’uomo dominava la natura inserendosi in essa. Questo rapporto di misura , naturalmente assai elastico; questa armonia del potere e del volere coi dati immediati ; questa possibilità di sperimentare anche vitalmente le conoscenze e le realizzazioni , formano le qualità che designiamo col termine “umano”. Ma poi i rapporti si trasformano . Il campo della conoscenza, della volontà, dell’azione umana supera, dapprima in casi singoli, e poi sempre più di frequente e infine in modo assoluto , l’ambito della struttura immediata dell’uomo. ….Egli è capace di progettare e di realizzare cose che non può più assolutamente sentire , pensiamo ad esempio alle possibilità che gli sono offerte dalla fisica. [ pensiamo ad esempio alla progettazione di un ordigno nucleare] Si trasformano perciò i suoi rapporti con la natura. Perdono la loro immediatezza, diventano indiretti , passano attraverso l’intermediario del calcolo e degli apparecchi. Perdono la loro evidenza, divenendo astratti e formali. Non sono più oggetto di esperienza, divengono obbiettivi e tecnici. Di conseguenza si trasformano anche i rapporti dell’uomo con la sua opera, ed anche essi divengono in gran parte indiretti, astratti ed obbiettivi. Per buona parte l’uomo non è più capace di farne esperienza e si limita a calcolare e a controllare. Ma d’ altra parte, se l’uomo è ciò di cui ha  esperienza , che avverrà di lui dal momento che il contenuto dei suo atti non può essere più oggetto della sua esperienza? Se la responsabilità è il rispondere di ciò che si fa, il trasferirsi del singolo fatto concreto  sul piano dell’approvazione morale , che avverrà della responsabilità dal momento  che tale processo non ha più forma concreta, ma si disperde nelle formule e negli apparecchi? Quest’ uomo che vive così noi lo chiamiamo “uomo non umano”  ( R. Guardini, La fine del mondo moderno pp. 69/70).

Il meccanismo di connessione tra i due elementi ( uomo e natura) è dunque il potere umano che cresce in modo esponenziale grazie alla tecnica, si separa dalla responsabilità e dalla moralità, perde ogni forma di autocontrollo e di limite, diviene una sorta di “pilota automatico”, come si usa talvolta dire con incosciente affidamento, senza pensare alle conseguenze deresponsabilizzanti di questa condizione.  E’ questo riduzionismo astratto e post-umano, solo a prima vista razionale,  reso possibile dalla tecno-scienza, ciò che produce la devastazione della natura e dell’ecosistema naturale,   attraverso l’ operato di un  “uomo non umano” attraverso cioè la progressiva perdita del controllo razionale sulla priorità delle finalità collettive, attraverso la perdita di senso di ogni attività progettuale collettiva, cioè attraverso la perdita di senso di ogni politica vera !   Se pensiamo alla ibridazioni degli uomini con le cose, propri del nuovo Internet delle cose,dei 5 G, delle nanotecnologie, dell’intelligenza artificiale, se pensiamo agli strumenti si sostituiscono i sistemi di cui l’uomo è una semplice protesi,  l’identità umana non potrà più essere quella dell’ homo sapiens. L’uomo dovrà mutare. L’ umanesimo nuovo avrà poco in comune con quello classico. Sarà un umanesimo inedito, si dice. Tanto inedito da essere un “non umanesimo” nei fatti. Una creazione dell’ “uomo-non -umano” per riprendere l’espressione citata.

E qui arriviamo alla guerra, cioè alla “continuazione della politica con altri mezzi”, ovvero alla de-umanizzazione finale della politica, cioè alla politica condotta con mezzi non umani, ma con le “arti della bestia”, violenza e astuzia, per riprendere le parole di Machiavelli. Possiamo dire che oggi questa de-umanizzazione sembra essersi “globalizzata”, nella guerra e non solo in essa. Potremmo dire che è iniziata una guerra “globale” non solo  “a pezzetti” ma anche senza interruzione, come dimensione permanente dell’ordine internazionale. Ma potremmo dire anche che la competizione generalizzata ha creato o promosso una condizione di guerra continua ( magari non sempre combattuta con le armi).

Se ben riflettiamo, alla radice di questo, troviamo ciò che è alla radice anche del disastro ecologico, vale a dire  un potere dell’uomo senza limiti e senza responsabilità. Che questo potere non sia un potere assoluto o totalitario, ma  affidato alla guida della tecno-scienza, non cambia molto le cose. Noi siamo  rassicurati dalla crescita di un potere sulle cose, non pensiamo mai che alla crescita del potere dovrebbe sempre corrispondere crescita della coscienza, della responsabilità, del senso dei limiti. Chi possiede ordigni nucleari ha oggi sempre questi caratteri? L’uomo di governo dispone di una potenza da esercitare sul proprio potere, per distinguere il vero dal falso e il fine dai mezzi?

(segue)

Umberto Baldocchi

 

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