Ho ricevuto due scritti, del 14 u.s., di Giancarlo Infante e Alessandro Diotallevi. Si tratta di persone a me note per interesse comune e condiviso con cari amici vescovi. L’interesse che mi ha mosso nel passato è stato quello di studiare, da tutti i punti di vista, i significati e le modalità di attuazione di una presenza pubblica ispirata cristianamente.

Mi rendo conto che si tratta di argomenti molto impegnativi, che esigono professionalità precise e fanno riferimento, nell’attuazione delle varie vocazioni presenti all’interno della Chiesa. Nella Chiesa stessa le vocazioni hanno uno spazio proprio, ineludibile; eccetto però che tutti i modi di essere devono convergere verso fattori fondamentali.

Avendo letto le comunicazioni ricevute sento il mio dovere di dare un sostegno che non esclude nessuno ma che comunque tiene conto di persone che non hanno sdegnato di manifestare, più di dieci anni or sono tutta la simpatia e la generosità dei veri uomini di scienza (sono tra quelli che compaiono tra gli scritti già citati).

Ho tanto da offrire tra quello che è stato prodotto in vari appuntamenti formativi, sul tema specifico dell’impegno politico dei cristiani; ne scelgo uno, nato da una di queste esperienze: ho privilegiato uno fra i tanti, perché su alcuni aspetti, che mi sembrano rilevanti, hanno saputo dimostrare la realtà del passaggio da una ipotesi ad una realtà, che è diventata, in spe, contra spem punto di riferimento concretissimo.

Lo scritto che mi permetto di segnalare ci esprime questa fiducia.

I.

Il presente contributo viene offerto come una serie di proposizioni in vista dello sviluppo di un progetto più completo e, sia nell’augurio che nell’impegno conseguente, più largamente condiviso.

Queste tesi  –  proposizioni è certo che non possono e non vogliono essere in nessun modo preconcette; esse però si fondano su argomentazioni sulle quali, anche a livello di documentazione scientifica e pubblicistica, si registra ormai, almeno così ci sembra, un consenso qualificato e largamente esteso.

C’è una crisi dello Stato; essa è legata a vari fattori; è tuttavia sicuro che,  se lo Stato perde forza, al di fuori di esso e anche in contrapposizione, si sviluppano nuovi poteri, insofferenti di vigilanza e regolamentazione, fortemente autoreferenziali e tendenzialmente trasgressivi. Si impone una ristrutturazione del potere dello Stato in forme policentriche. In tale senso si possono mettere in evidenza alcuni nodi fondamentali.

  1. In un contesto di pluralismo esasperato di valori, può essere allettante la concezione di una democrazia che garantisca soltanto, con opportune procedure, la pacifica convivenza degli spazi pubblici di un pluralismo di valori esasperato. A questo fenomeno si collega il declino di ogni interesse dello stesso Stato per i valori con un’ attenzione esclusiva alle procedure. Non interessa più la verità ma la procedura. Fare una scelta di valori significherebbe fare una scelta di parte. Eppure se una democrazia non si poggia sui valori è votata al suicidio. Ha scritto Giovanni Paolo II: «Un’autentica democrazia è possibile soltanto in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza a essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dci diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (Centesimus annus, n. 46).
  2. La politica, come arte del governo della società, deve badare al bene della persona e al bene comune; in tal senso in essa si deve veder riconosciuto il primato del diritto e dell’etica; la politica è la fase di organizzazione, di bilanciamento, di garanzia, ma anche di limite.
  3. Quando ci si addentra nell’analisi della nostra società in particolare, si avverte l’influsso del cambiamento sul governo della società. Questo cambiamento, anche se bifronte, appare come un moloch. È facile la deriva in catastrofismo evasivo; se tuttavia la Grazia ci da il battito della speranza, si riesce a collocare in una luce più chiara l’analisi delle diverse situazioni: ci si apre ( questo è il primo battito della speranza) a rinvenire le cause in quella che propriamente si dice emergenza culturale, emergenza educativa. Il battito della speranza ravviva il desiderio; si diventa più propensi ad analizzare il presente per poter nutrire la speranza per il futuro; si scopre il bagaglio fruttuoso della memoria come alimento della stessa speranza; si riapre il gusto della conoscenza e della progettazione; si riscopre il valore della pazienza ( macrothumia = grandezza d’animo) come capacità di dilatare lo spazio del proprio impegno e del proprio desiderio oltre l’immediatamente sperimentabile.

II.

La percezione che si tratta di una crisi e culturale ed educativa, in un animo nel quale sia rimasta una capacità di speranza, porta a scoprire che più che di crisi si tratta di carenza: in verità non viene meno qualcosa che prima c’era, ma si constata semplicemente l’assenza di un qualcosa che non c’è mai stato. Le traversie storiche e geografiche di una regione come la Calabria, hanno senza alcun dubbio determinato una cesura rispetto a processi che hanno portato mutamenti strutturali; di conseguenza ci sono stati ritardi che però possono essere provvidenzialmente colmati dallo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, dalla stessa globalizzazione e comunque dalla accelerazione della storia. In tal senso l’ affermazione giusta diventa: “L’obbiettivo da raggiungere è il ritorno alla coscienza” ( Costantino Belluscio, Un laico sulle vie del cristianesimo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, pag. 110).

Il percorso maieutico di questo ritorno alla coscienza per quali vie si può delineare?

  1. Il superamento della unidimensionalità ; la crisi delle ideologie; la necessità di una scepsi critica, di un discernimento per la rifondazione di un dialogo essenziale.
  2. Il porsi della civiltà cristiana come terza via tra socialismo reale e neoliberalismo dentro i processi di mondializzazione.
  3. La stesura di una “grammatica etica comune” che consenta il ripensamento del concetto di laicità nella fondazione di quelli che sono il principio personalista, il principio di solidarietà, il principio di sussidiarietà, il principio del bene comune verso una società del lavoro libera, dell’impresa e della partecipazione; stabilire le condizioni di una democrazia autentica, il principio di legalità, la connessione tra giustizia e carità, dare l’attenzione adeguata al terzo settore dello Stato sociale. Sullo sfondo resta ovviamente la sfida del relativismo assoluto con le sue contraddizioni ma anche con l’attenzione ai mezzi del suo superamento.

Laddove questo progetto, che è anche itinerario formativo, è stato attuato o è in via di seria e fiduciosa attuazione, i risultati si vedono abbastanza facilmente, cosicchè diventa subito necessario interessarsi di potenziamento, non per la debolezza dell’esito ma per le sue appariscenti potenzialità.

Risultato fondamentale del percorso è che ci si abilita a riconoscere che la comunità politica non è una società d’affari, che la comunità politica ha dei limiti e che tra essa e la società civile ci debbano essere rapporti sia di distinzione che di interdipendenza e reciprocità; che il bene comune non è la sommatoria dei beni individuali né è strumentale: il bene comune è la condizione del bene individuale. C’è da riscoprire la stessa “etica del profitto”.

III.

 C’è un cammino che, si apre e che senza esagerazioni, lascia intravvedere una “traiettoria naturale” dalla piccolezza del seme allo splendore di una nuova alleanza sociale, intatta malgrado il turbinio delle contingenze storiche; qualche altro scopre la capacità di porsi con attenzione d’amore di fronte ad un presente – grembo che fa presagire la bellezza dell’esito finale in una nuova vita.

Questo discorso, è ovvio, si articola nello sviluppo di altre tematiche necessarie. In questo scritto procediamo offrendo dei materiali colti dagli effetti di alcune esperienze condivise per un laboratorio che possa avvalersi del contributo di persone notoriamente competenti. Le riflessioni, nate dalle esperienze, sono alcune di matrice specificamente cristiana, altre sono nate da contesti aperti ad una ricerca concorde della verità e al rispetto di una legittima, ricca varietà.

IV.

Il contributo dei credenti alla speranza del sud

 La stessa preoccupazione di definire la specificità del proprio metodo e del proprio linguaggio e del proprio contributo, porta ad avere molta difficoltà ad interagire con altri. La complessità delle presenze, la globalizzazione degli interventi la si vive non come globalizzazione della solidarietà ma come rigorosa delimitazione di ambiti di potere, preoccupati così più di sopravvivere che di servire. Certo il richiamo all’impegno globale non è stimolo alla confusione bensì alla comunione, unità nella pluralità, di realtà e di energie, che proprio perché aventi una propria consistente autonomia non soffrono, ma esigono l’articolazione delle parti (quod unitatem non habet non suffert differentias).

L’esigenza dell’autodefinizione e l’esito di questo processo è garantito dall’autenticità e dalla pienezza del coinvolgimento nella comunione. Sosteniamo in pratica l’affermazione del primato della koinonia (= comunione) sia come orizzonte conoscitivo – epistemologico sia come impatto etico.

Un secondo dato è da mettere in evidenza: il primato della Parola.

Il rapporto con la Parola sacra lo esprimiamo a partire dalle esperienze nelle quali Essa viene effettivamente posta al centro e si vede riconosciuto il primato.

Tra i tanti aspetti che si possono rilevare notiamo: la Parola presenta una sua costitutiva ed inalienabile dimensione profetica. Accostarsi ad essa significa assumere un orizzonte conoscitivo che la verità sappia accoglierla non solo né primariamente come verifica ma soprattutto come progetto. Una parola che non è tanto criterio di giudizio sul passato, ma fiducioso orientamento al futuro e, nella fiducia e speranza basilare, accoglienza e abbandono dinamico nel presente, colto non tanto come status quo, ma piuttosto come status a quo, rimanendo preservata la sua identificazione nella prospettiva di un dinamico, fecondo, a suo modo garantito, processo vitale; verrebbe la voglia di dire: siamo dentro un “istintivo” (!) slancio vitale, illuminato dalla Parola della fede, sostenuto dalla energia della speranza.

Fare riferimento alla Parola in tal senso è:

  1. condividere profondamente quella originalissima esperienza di incarnazione della fede che è rappresentata dall’esperienza biblica che, proprio per queste sue caratteristiche, è paradigmatica e feconda di straordinarie anticipazioni prolettiche. A nessuno sfugge la vivacità della suggestione con la quale si colgono relazioni costitutive ed energiche tra avvenimenti e dinamismi storiograficamente molto lontani ed insieme tanto vicini per un legame che può dirsi meta-storico, ma non nel senso della a-storicità, quanto piuttosto nel senso del riscontro di un radicamento profondo nell’essere delle cose e della storia stessa. Ne viene fiori una enorme capacità di confronto, di comprensione; c’è come un potenziamento della intelligenza, sia che essa interpreti sia che essa progetti (“gli occhi della fede”!); c’è una mirabile capacità di composizione di elementi disparati e contraddittori nell’armonia dell’insieme e del tutto (la mirabile coincidenza degli opposti nella assunzione e redenzione della contraddizione; “abbandonarsi alla contraddizione”). Nel gergo popolare il tutto è alla radice della constatazione ammirata soprattutto di chi è più povero e più ricettivo: come fai a vederci queste cose?
  2. Dall’accoglienza fiduciosa dei mirabilia Dei fiorisce la speranza nell’impegno (spes contra spem), il superamento di paralizzanti giudizi catastrofici che ti distolgono dallo stesso impegno per il presente, tarpandoti le ali e rinchiudendoti in un meschino attaccamento ad una riduzione di esso entro limiti ai quali tu stesso finisci col ribellarti perché non ti ci ritrovi. Infatti, di primo acchito, la frammentarizzazione del reale ti sembra offrire la gratificazione di farti sentire capace di gestione e di governabilità. Ben presto però queste dimensioni diventano illusorie, perché ti trovi perduto nella riduzione degli spazi e trovi in te e attorno a te devastazione ed asfissia. Non ti resta che la violenza del potere, ma anche questa ti distrugge, perché ha in se stessa la ragione della propria distruzione. La Parola ti consente di volare alto e con potenza (sursum… pleonexia… exousia…). Di qui l’interesse vivace e sempre fecondo di chi cerca non tanto analogie di situazioni quanto criteri di discernimento; di qui l’accoglienza della storia senza riduzionismi arbitrari e senza ricerca di anacronistiche coincidenze (il fondamentalismo ed il suo correlato suicidio del pensiero!).
  3. L’esperienza della Parola è, nella sua originale forma profetica, fonte inesauribile di capacità critica, di trascendenza. Sorprende notare soprattutto la germinazione ermeneutica che da essa si sviluppa, la reale possibilità di accoglienza, ma anche la liberazione dia assolutizzazioni dogmatiche che pretendano di violare la sublimità del mistero (pur sempre fascinosum et tremendum, sebbene, per noi cristiani, per grazia di partecipazione, anche immanente). L’attenzione alla Parola, orientata così com’è al Tutto, sviluppa la capacità di accogliere la complessità e di trovare nella stessa complessità le ragioni di un impegno diuturno.
  4. Nella storia recente siamo più o meno tutti partecipi di una sorta di censura epistemologica tra intelligenza della fede e visione concreta del mondo, tra fede e vita, tra testimonianza personale e comunitaria della fede nella storia e le scelte concrete postulate dalla storia.

Un ‘attenzione particolare va alla percezione della specificità degli stili (ecclesiastici e laicali) nell’articolazione della compagine ecclesiale; ma più importante ci sembra e, soprattutto, più consona al nostro momento storico la ridefinizione di uno stile ecclesiale tout-court che non si avvale della distinzione dei gradi per il conseguimento di una più corrispondente e soddisfacente conoscenza, ma che invera e pone, nella sua piena articolazione, il suo essere come nient’altro che essere in comunione: comunione ontologica (cattolica, geografica o geopolitica della salvezza) prima che convergenza funzionale delle forze. Il riferimento alla potestà gerarchica va considerato non tanto per la determinazione della competenza della rappresentanza istituzionale, sia pure ai fini sacrosanti della vitalità delle stesse istituzioni, quanto per l’ individuazione del proprio ambito vitale, del proprio Sitz im Leben e, dunque, in Historie. Di qui risalta l’accento che si deve dare alla dimensione sacramentale e, nella luce del sacramento, al dinamismo della miss io – immissio.

Della dimensione sacramentale consideriamo, in primo luogo, la dimensione onto-teologica e poi la sua significazione e simbolizzazione. .

La dimensione onto-teologica la guardiamo nel suo aspetto comunitario (extra Ecclesiam nulla salus) e nel suo aspetto strettamente personale – individuale (l’irripetibile personalizzazione della chiamata e della risposta). Applichiamo soprattutto al dinamismo sacramentale quella struttura che presiede ad ogni atto di rivelazione: dono, coinvolgimento – chiamata, risposta dal di dentro di una storia. Lo stile ecclesiale è allora quello di chi riconosce la gratuità assoluta di un dono, la possibilità reale ed effettivamente coinvolgente dell’accoglienza più piena, la decisione della risposta e la ricezione, quasi a mo’ di ritorno, nella circolarità del dono (la sintesi) di questo fenomeno, all’interno dell’humus nel quale esso ha trovato la sua scaturigine e nel quale esso ritrova la sua condizione inalienabile di fruttificazione.

La gratuità del dono si manifesta nel suo splendore per l’interazione, articolata e non confusa (proprio per questo viene esso salvaguardato dalla mistificazione e dall’assunzione magica) tra il momento della invocazione declamatoria e quello dell’invocazione consacratoria.

Il punto ultimo è nel rapporto pienamente sacramentale tra persona – comunità, persona – Persona. La rappresentanza si risolve all’interno di questo dinamismo.

La chiesa non è uno speciale reparto di servizi per particolari bisogni dell’uomo; la chiesa vive con l’uomo. Per questo assume un valore profetico l’enunciato iniziale della Gaudium et spes che, proprio per questo, si colloca al di là di una proposta strategica: ogni buon operatore socio – culturale afferra la necessità di far riferimento per qualsiasi suo intervento al quadro ambientale. Non si tratta di derivare la comunione dalla mediazione, ma, viceversa, di vivere la comunione come mediazione, soprattutto consapevoli come si è della realtà della grazia. Sarà la varietà della storia a determinare la varietà delle appartenenze, ma certamente non sarà l’appartenenza a precludere la comunione, su base cattolica, universale. L’adesione al pro-getto di Dio sarà possibile e ammirevole registrarla come felice approdo della indefettibilità di Dio.

Per quanto riguarda più propriamente l’aspetto dell’integrazione tra fede e politica, ci sembra di poter dire:

  1. va ristudiato il rapporto tra fede ed esito della fede, anche nella riconsiderazione dell’appartenenza e del cambiamento;
  2. deve essere ravvivata la consapevolezza del munus di santificazione dell’ordine temporale, proprio dei laici, riprendendo il dibattito ecclesiologico sulla “rappresentanza” (agire in persona Ecclesiae);
  3. bisogna continuare la teologia della missione, ricollocando nell’uomo la principalitas potior (il valore uomo);
  4. occorre riscoprire la fiducia nel futuro, rifacendosi alla radice ontologica dell’ imago Dei e della redemptio gratiae.
  5. si deve porre, nella gerarchia dell’impegno, al primo posto la mediazione, senza che questo significhi l’omologazione degli sbocchi; si tratterà di una mediazione pontificale, che cioè comunque mantiene sta-bili i ponti nella verità e nella forza dello Spirito;
  6. lo stile laicale / ecclesiale dell’intervento rimane sempre aperto ma non confuso nella sua varietà;
  7. si opererà un ridimensionamento ideologico dell’impegno storico per la concretezza e la perentorietà delle svolte della mediazione;
  8. si riconoscerà nuovamente il valore relativamente autonomo (secondo il dettato conciliare)delle realtà create e il valore epifanico di ogni loro inseguimento nella pienezza della loro consistenza.

Un  contributo più “ecumenico”: La concezione della politica

 Il senso comune di umanità e, in maniera radicale, l’amore cristiano esige che si aiutino tutte le persone concrete. Questa è una esigenza che va molto al di là della semplice filantropia; la carità cristiana primariamente è per il povero, per i più bisognosi ed i meno protetti: quelli che alla povertà materiale uniscono la povertà morale, quelli ai quali, di fatto, è negata l’infanzia, è negato il futuro, è negata la vita. Si tratta di riconoscere negli altri un volto e, per chi è cristiano, si tratta di riconoscere nel fratello il volto di Cristo, e di impegnarsi coerentemente per lui.

Grava un’ipoteca sociale sull’interesse del singolo. Non c’è sviluppo se non in stretto rapporto al coinvolgimento effettivo nella costruzione di una comunità solidale. Lo sviluppo è solidale quando si diventa capaci di prepararsi a lasciare agli altri non briciole ma semi; quando nel seme marcito si è capaci di contemplare la spiga fiorita; quando ci si attrezza affinché sia custodito, assicurato il passaggio dal seme marcito al seme maturo.

  1. La nostra condizione storica è quella del ‘villaggio globale’: la nostra piccola identità, la nostra piccola storia è raggiunta e penetrata comunque dalla storia più grande; il mondo è piccolo e l’io è grande; un mondo grande può soffocare un io piccolo, può determinare la sorte di tutti. I cattolici si chiamiamo così proprio perché “kath’olon”, orientati al tutto, un Tutto che riguarda e interessa tutti, nel quale si è, per il quale si vive, al quale si è chiamati a rispondere. Si tratta di capire l’interdipendenza delle persone, il coinvolgimento nella storia, comunque e inevitabilmente comune. Non c’è possibilità di costituirsi nicchie di riparo e di evasione. Chi ti è legato può essere geograficamente lontano, ma la lontananza geografica non è più un problema! E’ semplice capire, è ormai sotto i nostri occhi, che è globalizzata la forza della distruzione; non è difficile capire che bisogna globalizzare la forza della solidarietà, del bene, quello che naturalmente ognuno è capace di intendere con il vigore della sua intelligenza e l’apertura del proprio cuore.
  2. La solidarietà si può vivere a livello “artigianale”, interessandosi delle persone che effettivamente s’incontrano. Pio XI, però, già il 18.12.1927, parlò di “Carità Politica” che si esercita assicurando la gestione corretta della cosa pubblica. E’ certamente una delle forme più efficaci di servire gli altri. Ci possono essere impegni differenti ma comunque rimane per tutti il dovere della denuncia di quelli che contraddicono al bene comune; il primo passo per ristabilire la giustizia consiste nel fare la propria parte affinché la verità sia chiamata per nome. In senso generale si parla d’impegno politico, perché è politica tutto ciò che incide sull’esercizio del potere pubblico. In questo senso non esistono comportamenti apolitici, perché qualsiasi azione, e, per quel che forse più generalmente ci riguarda, qualsiasi omissione ha sempre una ripercussione politica, così come chi non costruisce distrugge. Chi tace acconsente, fa politica per lo status quo. Per questo non si può scegliere di fare o non fare politica, ma si può solo scegliere a favore di chi e come la si deve fare.
  3. Nei gruppi più tradizionali si sente poco l’esigenza d’essere attivi; basta che ci sia un leader, un capo, un superiore; il legislatore non può che essere chiaroveggente, quindi basta obbedire; semmai è necessario tenerselo vicino colui che comanda, lui ti assiste e tu stai sicuro. Come avvenga non t’interessa, basta che tu abbia da mangiare e da bere e i “cento ducati” per il tuo bambino, del resto non t’importa. L’hanno chiamato assistenzialismo, più propriamente dobbiamo dare a questo fenomeno un nome più corrispondente, più vero : è devastazione, sopruso, Abbiamo sotto gli occhi una terra non amata, sfruttata, depredata, defedata. Dobbiamo aprire gli occhi e tenerli costantemente aperti, dobbiamo essere vigilanti; “un leone ruggente gira intorno cercando chi divorare…”: il leone è il sistema di chi ti presenta l’illegalità come furbizia, la prevaricazione come legittimo uso del potere, l’egoismo più spietato e ottuso come intelligenza raffinata e riuscita. Occorre vigilare, occorre discernere. Il discernimento è responsabilità del singolo ma non si opera senza l’unita’ e la condivisione.
  4. Il rapporto tra la comunità ed il potere politico non si può isolare in un contesto solo d’ordine teorico, ma risponde a situazioni del momento. Non si tratta in questo di indulgere a visioni miopi, si tratta solo di avere un giusto senso dei rapporti. In questa prospettiva appaiono chiari i limiti di concezioni apocalittiche che predicano disperazione, scioperano al presente, e invocano ed esaltano messianismi anche di basso mercato; si apprezzano invece aspirazioni dialogiche tese ad allargare gli spazi dell’intesa e della concordia, mantenendosi in una posizione di “lealtà divisa”, di “liminalità”, quella che è necessaria per prevenire assolutizzazioni indebite, ma quella che consente, per l’ascesi dell’intelligenza e della volontà, di rimanere critici rispetto ad un presente che non è “il tutto”, di non rimpiangere un passato che ha aspetti anche nefandi (=indicibili), di impegnarsi a costruire realtà superiori. Si tratta non di lavarsi le mani ma di far valere il primato della coscienza. Si tratta anche di proteggersi dalla disgregazione interna, articolando le parti nei diversi gradi e nei diversi ruoli, riducendo posizioni di intransigenza e di estraneità e cercando il dialogo per una comune responsabilità.
  5. Abbiamo accennato al principio di sussidiarietà. Questo principio esige un’attività sociale particolare che però è relativa ad uno specifico momento storico e ad una puntuale situazione; essa sarà diversa secondo i contesti, dei quali però occorre comunque avere una conoscenza reale. « Diverse circostanze possono consigliare che un organismo più vasto eserciti una funzione di supplenza temporanea; l’allargamento della responsabilità, legato alla particolare circostanza, è più facilmente individuabile, se promana dalla sinergia (società di reti), non ancillare (servile) di “società” congrue, opportune, convenienti, tuttavia non necessarie nè sempre emergenti come possono essere circoli culturali, di opinioni, associazioni varie».
  6. «Il bene comune è quel complesso di condizioni sociali che consentono ad ogni persona, ad ogni membro di una comunità di raggiungere autonomamente obiettivi ragionevoli o di realizzare ragionevolmente il valore o i valori in vista dei quali essi hanno motivo di collaborare l’un l’altro in una comunità per realizzarsi in pienezza.

La trattazione di uno solo dei principi sociali costitutivi (persona, solidarietà, sussidiarietà) implica la reciprocità, la complementarietà, la mutua implicanza. La loro comprensione ed interpretazione sarebbe altrimenti impossibile. Essi guidano l’azione sociale sulla base della loro unità, intrinseca connessione e articolazione; solo così essi possono suscitare una nuova storia».

In concreto

1. Bisogna agire.   Nella passività regna la disgregazione che non costruisce; occorre dare impulso alla socialità, allo spirito di partecipazione, di condivisione. Nell’unità c’è la forza! La politica deve anche saper stimolare momenti di aggregazione collettiva e ampliare il più possibile la partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica.

2. Bisogna cercare una forza che passi nelle strutture e nell’amministrazione della cosa pubblica, come stimolo profetico, culturale, verità che risana (è possibile), come sale della sapienza, per bandire la cancrena del malcostume, del degrado etico che fa della politica uno spazio d’interessi privati, un gioco tra clans, una corsa al potere. Occorre superare ogni omertà per confondere ogni tracotanza! La politica deve essere trasparente e deve saper rappresentare valori universali e condivisi. Le caratteristiche fondamentali degli uomini politici devono essere la qualità, l’autonomia, l’onesta’e la moralità. Non abbiamo potere? “Il domani del sud è nel potere spirituale di chi non ha potere”.

3. L’emergenza è culturale: si tratta di formare uomini nuovi per l’impegno socio-politico (scuola di formazione), mostrare modelli nuovi, avere soggetti radicalmente liberi da qualsiasi forma di condizionamento sociale ed economico, che non considerino la politica come pane da divorare; non è uscita di sicurezza né il contrattualismo degli interessi nè il contrattualismo degli ideali. tra bene comune e bene privato c’è continuità. In questa descrizione è anche importante eliminare ogni forma di conflittualità estrema. Sia pure nel pieno riconoscimento e nella valorizzazione delle diversità ideologiche e culturali, bisogna sempre privilegiare il dialogo e il confronto dialettico per il perseguimento di un fine comune che è il bene della società. I politici devono avere spiccate capacità relazionali per essere in grado di mediare i conflitti e animare dinamiche interattive.

4. Nella nostra attuale contingenza si tratta di fornirsi di un’adeguata documentazione e conoscenza delle leggi per vedere quale sia la soluzione migliore per garantire la cura possibile e più sicura dei mali del passato ma soprattutto il ristabilimento di basi solide per un futuro più’ giusto. Questo impegno di conoscenza accoglie con fiducia l’operato delle istituzioni. Per la discrezionalità, alla quale è legata ogni decisione, ci si dovrà preoccupare di dare il proprio contributo affinché le decisioni siano le migliori per la popolazione e soprattutto per i cittadini meno protetti. La politica deve essere interpretata come esclusivo spirito di servizio. E’ evidente che le responsabilità del passato debbano pesare e incidere sulle scelte. Sarebbe paradossale che chi ha causato lo sfascio possa riproporsi per riparare i danni e costruire la rinascita.

Il nostro principio è il futuro

Sulla base dei ragionamenti e delle teorizzazioni fin qui sviluppati, è possibile sintetizzare la nostre idee e la nostra concezione della politica e la nostra visione sulle caratteristiche peculiari che devono contraddistinguere i politici nei seguenti dieci punti.

  1. L’attività politica deve essere intesa nella sua totale accezione di spirito di servizio nei confronti della società, eliminando dalla sua pratica ogni possibile interesse personale e di parte per perseguire esclusivamente gli interessi generali del popolo.
  2. La politica deve bandire dalla vita amministrativa ogni elemento di corruzione e di connessione con poteri illeciti ed occulti e deve saper rappresentare valori universali e condivisi.
  3. La politica deve stimolare momenti di aggregazione collettiva e ampliare e diffondere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, promuovendo un impegno diretto della gente nei processi politici e nell’attivazione delle dinamiche dello sviluppo.
  4. All’interno del dibattito politico, devono essere evitati momenti di estrema conflittualità e di scontro. Sia pure nel riconoscimento e nella valorizzazione delle diversità e delle ‘differenze ideologiche e culturali, bisogna sempre privilegiare il dialogo e il confronto dialettico finalizzati al perseguimento di un fine comune che deve essere il bene della società.
  5. La politica deve avere la capacità di innescare processi che siano in grado di dare impulso allo sviluppo socio-economico del territorio, di sostenere i bisogni collettivi, di salvaguardare i diritti di tutti, di incidere sull’attivazione di dinamiche sociali innovative, di promuovere un elevamento dei livelli di civiltà e di cultura, di rappresentare un sicuro punto di riferimento per i cittadini.
  6. Qualità, onestà e moralità devono essere le caratteristiche fondamentali degli uomini politici.
  7. E’ preferibile che i rappresentanti istituzionali e politici siano individuati nelle persone che hanno dimostrato capacità e competenze nello svolgimento delle proprie attività lavorative, dal momento che ciò può rappresentare una garanzia anche nello svolgimento delle attività amministrative e pubbliche.
  8. I politici devono avere buone capacità relazionali per essere in grado di mediare i conflitti e di animare processi sociali interattivi.
  9. Politici ed amministratori devono essere pienamente autonomi sul piano socio-economico
  10. Essi devono essere liberi da qualsiasi forma di condizionamento.

Forniamo  in termini sintetici i criteri dell’impegno:

Finalità:

✓ Stimolare ad un impegno più costruttivo nella politica per risolvere insieme i problemi
“ stimolare ad u costruttivo nella
politica per risolve insieme i problemi

✓ Far rinascere la città

Concezione della politica

1. Il valore della persona
2. il bene comune
3. solidarietà e carità politica
In concreto:
1. Maggiore spirito di aggregazione, partecipazione e condivisione
2. Trasparenza della politica fondata sui valori comuni.
Criteri per agire

1. Discernere in unità
2. Comune responsabilità tra comunità e potere politico
3. Formare uomini politici che abbiano a cuore il bene comune e sappiano dialogare, relazionarsi
4. Maggiore formazione e conoscenza delle leggi.
3. Organismi vari di responsabilità
4. Reciprocità, complementarietà dei principi sociali costitutivi.
5. Proporre uomini nuovi per un cambiamento radicale.
6. Guardare con fiducia al futuro

Caratteristiche dei politici
1. Posporre il bene personale al Bene comune
2. Credere e agire secondo valori universali e condivisi
3. Stimolare momenti di aggregazione. Far crescere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
4. Evitare momenti di conflittualità e scontro.
5. Essere un punto di riferimento per i cittadini per la difesa dei loro bisogni e diritti.
6. Qualità, onestà e moralità.
7. Avere un’esperienza nel campo lavorativo.
8. Buone capacità relazionali per mediare i conflitti
9. liberi economicamente per essere liberi da ogni condizionamento.
Alle nuove forze si possono unire politici che hanno già dimostrato capacità ed efficienza.

Riportiamo quasi in allegato il testo di un noto autore sui peccati dell’uomo politico e su una formula “di confessione” valida, in molte cose, per tutti:

“La spiritualità moderna conosce anche i «peccati» che può com­mettere l’uomo politico: egli «pecca», se è un uomo politico, ma non conosce la storia. Se conosce anche le ideologie moderne solo super­ficialmente, in modo primitivo. Se si basa più sul suo «fiuto politico» che sullo studio serio della situazione. Se non conosce né le congiun­ture locali, nazionali e internazionali, né quelle ideologiche, economi­che, politiche. Se si è rassegnato all’esistenza del sottoproletariato e allo sfruttamento nei paesi in via di sviluppo. Se difende gli inte­ressi locali senza badare alle comunità superiori. Se risolve in fretta e superficialmente quello che avrebbe bisogno di un’approfondita ri­flessione. Se non sa che cosa veramente voglia ottenere con il suo lavoro. Se non sa prevedere. Se non è capace di agire con magnani­mità. Se non è capace d’inserire le singole momentanee azioni politi­che nel progetto politico globale e permanente. Se sacrifica la ge­nerazione di domani all’egoismo di quella d’oggi. Se non sa discer­nere in quali realtà e fenomeni della situazione esistente si nascon­dono le energie che può usare per il bene comune. Se non s’accor­ge delle manovre politiche. Se non sa sfruttare gli avvenimenti per l’educazione politica del popolo. Se le situazioni difficili gli fanno perdere il giudizio. Se simula la fedeltà ai «principi», laddove egli ha di fatto fallito. Se respinge le buone proposte e gli orientamenti de­gli avversari. Se al di sopra di quello che divide, non cerca gli ele­menti che uniscono. Se promette più di quello che può dare. Se cade nella demagogia. Se parla di sporchi compromessi, dove si tratta di saggio uguagliamento e di giusta discrezione. Se rimane tenace­mente abbarbicato alle cose secondarie e con ciò si lascia sfuggire quelle essenziali. Se respinge la lotta di classe, ma non fa nulla per­ché si arrivi ad una situazione dove non vi sarà più la lotta di classe. Se malgrado la provata incapacità non vuole abbandonare la poltrona. Se dimentica che le trasgressioni etiche e gli errori politi­ci del cristiano sono, nello stesso tempo, anche scandalo. Se si dichia­ra politicamente «cristiano» quando di fatto non lo è più.

Più o meno in questa maniera l’uomo politico di professione do­vrebbe fare il suo esame di coscienza. Ma poiché ognuno deve, in una certa misura, prendere parte alla vita politica, questa «formula di confessione» vale, in molte cose, per tutti”. (K.V. Truhlar)

 VI.

Il battito della speranza

Nel periodo delle incertezze contemporanee, c’è questa sensazione, partecipata a più livelli, che l’ultima parola non può spettare alla brutalità dei fatti che in questo momento ci opprimono – il riferimento alla crisi economica non è che un modello delle contingenze attuali – e che occorre avere fiducia nell’analisi storica del presente per poter nutrire la speranza per il futuro.

La speranza: che cosa ci porta a sperare?

E’ difficile che la speranza nasca dai nostri desideri.

I desideri non sono che volontà, proiettate nel futuro, delle nostre aspirazioni che potrebbero rivelarsi irrealizzabili, ed è per questo che il desiderio non è la fonte a cui attingere per il futuro.

E’ infatti assai facile che i nostri desideri diventino illusioni che non portano alcun frutto, rimanendo sterili ed autoreferenziali.

La speranza nasce, invece, proprio dalla coscienza del presente, dall’analisi profonda di ciò che ci circonda, attingendo anche, in un processo dinamico e storico, dalla consapevolezza di ciò che è stato il passato.

L’uomo spera per il futuro perché ha già avuto modo di sperimentare le realizzazioni positive che hanno preceduto, nella dimensione storica, il suo presente. Il bagaglio della memoria dà, in questo senso, alimento alla speranza; ma senza un’analisi cosciente e consapevole del presente è come se confidassimo nel futuro partendo con i mezzi sbagliati. L’erronea supposizione di conoscere il presente può davvero impedirci di coltivare il sentimento della speranza.

Utilizzando una metafora, è come se il futuro fosse un bambino ancora nel grembo della madre che lo accoglie. La madre rappresenta il nostro presente, ma sta a noi accostarci a questa donna e prenderci cura di lei, vedere come sta ed aiutarla. Se ci disinteressiamo della madre, quali velleità potremo avere di poter auscultare il battito di quel bambino?

Se avvicinassimo il nostro orecchio a quel grembo non sentiremmo nulla.

Ciò potrebbe farci pensare che all’interno di quel grembo non c’è niente, ma invece va detto che il futuro è già in fase di gestazione; molto probabilmente è il nostro stetoscopio a non funzionare, forse perché non ci siamo occupati di fare una corretta manutenzione dei nostri strumenti d’analisi, e siamo rimasti, così, privi di mezzi per capire il presente, perché tutti concentrati su noi stessi.

La noncuranza e l’indifferenza con cui si vive la quotidianità, tirando a campare e senza preoccuparsi di capire a fondo quali sono i nodi irrisolti, ma risolvibili, dell’attualità, ci porta, senza che ce ne accorgiamo, alla rinuncia al domani, a vivere l’oggi in maniera parassitaria e senza alcuna responsabilità.

E’ proprio da un atto di responsabilità che nasce e si accresce la speranza, quando (e se) la responsabilità è accompagnata anche dalla scelta.

Responsabilità e scelta viaggiano assieme sullo stesso binario, nel cammino della speranza, ma se si separano, allora quel cammino viene interrotto.

Se attraverso una condotta responsabile vivo il mio presente, potrò anche essere capace di fare un’ottima analisi, partendo da buone premesse, ma, arrivato ad un certo punto, scontrandomi con un ostacolo difficoltoso, dovrò per forza bloccarmi prima di formulare le mie conclusioni.

E’ lì che s’impone il momento della scelta.

Se la scelta non viene fatta, si potrebbe rischiare di barricarsi in un catastrofismo deresponsabilizzante, che ci fa dire “in presenza di questo problema non possiamo fare niente”; in questa inerzia si avvantaggia, senza accorgercene, il nostro avversario (che può essere il nostro concorrente nel sistema di libera impresa, o il nostro antagonista politico, ma anche l’incognita stessa dell’avvenire che si nutre della nostra inoperosità).

E’ la scelta, a quel punto, che in questo percorso dinamico della speranza, ci consente, come Davide fece con Golia, di affrontare l’avversario ed uscire vittoriosi dal confronto.

Responsabilità e scelta sono tappe fondamentali nella strada della speranza, e la speranza stessa è, d’altro lato, uno degli atti più nobili per l’esercizio della libertà individuale, perché nessuno può impedire ad un uomo di coltivare un progetto per il proprio futuro; il futuro porterà, inequivocabilmente, il segno del modo in cui io, oggi, esercito la mia libertà nelle scelte, con un atto di responsabilità.

Anche nell’esercizio della libertà bisognerebbe però avere il coraggio di prendere atto delle evidenze positive e negative che ci circondano, bisognerebbe avere il coraggio di chiamare la verità per nome, perciò la domanda seria da porsi è: io sono o voglio essere libero?

Stretto nella morsa del presente, l’uomo non si accorge nemmeno di essere avviluppato da una schiavitù ideologica, in uno stato di dipendenza  ed assoggettamento che gli fa vedere le cose in quell’ottica distorta, frutto di un modus vivendi largamente diffuso.

Il fatto è che si è smarrito il concetto della verità ed allora non si è più in grado nemmeno di coltivare la speranza, non si riesce nemmeno più a capire che davvero il futuro è nelle nostre mani e che è necessaria una grande profusione d’impegno.

Il credente è sicuramente avvantaggiato in questo, perché è cosciente della potenza generatrice che hanno le proprie mani, direttamente intrecciate nella storia quelle di Dio.

Ritornando alla metafora che vede il presente come una donna, bisogna prendere coscienza che così come una donna non può generare se non è incinta, allo stesso modo la storia non può produrre la liberazione se le condizioni non sono mature. Nel processo dinamico della maturazione la speranza ha una grande forza d’imprinting, perché dà forma all’agire ed in un percorso dinamico accompagna tutte le fasi storiche di quella donna, dal momento del concepimento, alla gestazione, alla nascita.

Il bambino che nasce è proprio il futuro, e sarà in salute se noi ci saremo presi cura adeguatamente di lui.

Si può lanciare allora questo messaggio a tutti ed in particolare alla classe dirigente della nostra Società: partite dal presente per costruire il futuro, ed infondete ad ogni vostro atto la speranza generatrice di cose buone, perché essere nella speranza è essere nella storia.

La speranza è svilupparsi con progressività, riprendere il cammino dopo una stasi, rimettere in circolazione la linfa vitale dopo i blocchi che hanno arrestato ed inaridito qualsiasi processo creativo.

Si impone, oggi più che mai, una capacità di progettazione nuova, che non si esaurisca nella proclamazione di idee di pianificazione e di prospetti  di programmazione, ma che metta in atto progetti concreti e li divulghi, auspicando la più larga condivisione d’interessi, rendendo partecipe la comunità tutta non solo degli intenti ma anche delle applicazioni e delle trasformazioni dei programmi in atti e fatti.

Coloro che hanno esperienze di gestione non si barrichino dietro i metodi da “potere blindato”, ma facciano largo uso del prezioso strumento della socialità, intesa come relazione da intessere con la comunità nell’obiettivo del raggiungimento di un benessere condiviso.

Nel nostro paese dove l’obiettivo fino ad oggi è stato il raggiungimento di un Welfare State, nell’aspirazione di livellamento e ridistribuzione dei sussidi economici, attraverso l’uso degli ammortizzatori sociali, si è forse perso di vista che il benessere vero non è solo economico ma anche e soprattutto sociale.

Guardiamoci intorno: quella fetta di popolazione che apparentemente gode del benessere economico appare forse sorridente e felice?

E’ quello l’obiettivo a cui tendere, ovvero la mera ridistribuzione delle ricchezze?

Ancora una volta entra in gioco il concetto di speranza, che come una costante che parte dall’analisi del presente per dare forma al futuro, potrà consentire attraverso delle scelte responsabili e l’uso dello strumento della sussidiarietà e soprattutto della socialità, di passare dal Welfare State (inteso come ripartizione dei mezzi e dei servizi di sostentamento) ad una Welfare Society, dove il benessere sociale diffuso potrà, sì, rendere più felici i soggetti amministrati, che si sentiranno parte di un tutto.

Per far ciò, per acquistare quella credibilità perduta in questo nostro paese dove domina oramai il nuovo concetto di “antipolitica”, chi amministra la cosa pubblica deve tornare a proporsi soprattutto come animatore culturale.

Il suo compito deve essere anche quello di indicare ai cittadini il percorso verso la propria realizzazione, predisponendo i mezzi affinché ci possa essere una crescita individuale, nella realizzazione della propria libertà ed indipendenza.

La gente ha bisogno di un interlocutore presente, che infonda il sentimento di fiducia nel presente e nel futuro, un punto fermo con il quale relazionarsi e se c’è apertura, anche confrontarsi, partecipando attivamente alla costruzione di una politica nuova.

Il politico ha, in questo senso, un potere enorme, perché quasi come un educatore può creare le basi affinché vi sia la responsabilizzazione del cittadino, chiamato a cooperare con le istituzioni e con la comunità intera nella creazione collettiva della Welfare-Society.

Coloro che vogliono sul serio affacciarsi ad una vita pubblica più matura devono avere a cuore il bene comune e non  trincerarsi dietro il proprio benessere individuale o in quello di pochi altri, perché il bene comune non è la sommatoria dei beni individuali ma è la condizione stessa di esistenza del bene individuale;  laddove si creeranno situazioni di sperequazione, basterà la sofferenza di una fetta della popolazione a far fallire l’intero sistema, partito da scelte utilitaristiche, ma non certo condivise con la comunità.

E’ sicuramente difficile nel contesto presente operare delle scelte responsabili, perché ciò che ci circonda non è d’aiuto e il panorama sembra desolante ed arido, non vi sono frutti da far germogliare perché gli alberi sono stati tutti troncati alla base.

Nonostante però anzi proprio perché i nostri alberi sono stati tagliati, è ora di seminare quella nuova semente: il seme della speranza.

Questo è un impegno politico oggi possibile.

Poniamo di nuovo la mente a quella donna, che è il nostro presente e che non riesce ad essere fecondata: se fino ad oggi il nostro bimbo non è stato generato, è perché non ci siamo avvicinati a lei nel giusto modo: quella donna può tuttavia continuare a generare bambini bellissimi come in passato ha già fatto.

Finalmente è arrivato il tempo in cui possiamo fare del nostro presente il momento del concepimento.

 Monsignor Domenico Graziani – Vescovo Emerito di Crotone

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