Quando il “distanziamento sociale” era fisiologico, almeno tra una comunità e l’altra, cioè gli uomini vivevano in piccoli villaggi e gli scambi tra località diverse erano limitati, i comportamenti, i singoli gesti di ognuno ricadevano su un numero limitato di suoi simili, concorrevano a creare l’atteggiamento, la cultura collettiva di quel piccolo gruppo, ma il loro effetto si spegneva in quella cerchia ristretta. Il merito o il demerito di qualunque atteggiamento, la responsabilità personale che vi era comunque annessa, aveva una risonanza limitata e circoscritta che è via via andata ampliandosi man mano la rete delle connessioni interpersonali è progressivamente cresciuta.
Questo vale, in verità, sia per gesti volontari e, dunque corredati da un elemento di responsabilità, sia per accadimenti che, sia pure attraversando una singola persona, si diffondono oltre. E’ il caso della pandemia.
Da un evento singolo – il salto di specie che il virus ha compiuto dall’animale all’uomo nel primo soggetto infettato in Cina – si è scatenata un’onda montante che sta circondando l’intero pianeta, al punto che ritorna là da dove era partita.
Ne deriva una considerazione perfino banale o che sembra tale finché la consideriamo scontata, ma acquisisce un rilievo del tutto nuovo se appena, anziché darla superficialmente per acquisita, vi facciamo mente locale e ne acquistiamo piena, cosciente consapevolezza.  Insomma, l’umanità è davvero una. Una al punto che c’è una effettiva relazione tra un singolo soggetto e, potenzialmente, ogni altro singolo uomo.
Anche nella diffusione del virus vi sono aree che si sono rivelate a maggior rischio rispetto ad altre, in funzione di varianti locali di carattere ambientale o di altro genere. Pare vi sia pure una minore suscettibilità dovuta a varianti genetiche per cui determinate popolazioni non codificherebbero per proteine che rappresentano la porta attraverso cui il virus colonizza le nostre cellule. Vi sono fattori biologici, ancora da scoprire, tali per cui i bambini ammalano meno o addirittura, fortunatamente, per niente o quasi. Vi sono anche diversi livelli di “resilienza” legati, probabilmente, anch’essi a fattori culturali locali.
Al di là di tutto questo, il fenomeno è universale e le differenze di cui sopra sono meramente quantitative.
Veniamo da decenni segnati da una cultura fortemente caratterizzata in senso individualista. E’ stata la stagione dei cosiddetti “diritti civili” per cui ognuno – con il suo bagaglio di desideri eretti a diritto insindacabile – è legge a se stesso, secondo la logica di un “relativismo morale” che, sotto le mentite spoglie del pluralismo, pretende di porsi come fondamento della tolleranza e della stessa libertà. E’ stata anche la stagione del “mercato” eletto a “legge del tutto” della vita civile, non solo sul piano del capitalismo neo-liberista o comunque dei fenomeni collettivi, ma addirittura a livello della vita personale di ognuno. La stagione della competizione esasperata, del primeggiare e del successo a tutti i costi.
La scala dei valori è stata rovesciata e sradicata da quei riferimenti di amicizia civile, di solidarietà, di equilibrio sociale e di eguaglianza, di comune appartenenza che avevano accompagnato la fase di sviluppo del Paese e che, per la verità, persistono confinati nelle pur ampie fasce di cittadini dediti al volontariato e testimoni di quella cifra profondamente umana del carattere degli italiani.
Ora scopriamo di aver deragliato e di doverci arrendere all’evidenza che viviamo in “rete”; non solo quella virtuale, ma ancor più l’insieme stringente di connessioni necessarie e cogenti che disegnano la struttura propria della nostra vita collettiva. Questo – è importante rilevarlo per non avvitarci in pericolosi equivoci – non significa affatto che ciascuno di noi viene affogato in una specie di palude in cui la specificità personale di ciascuno impallidisce e si stempera, quasi che l’umanità sia una sorta di “eone” indistinto. E’ vero piuttosto il contrario. Scopriamo, infatti, l’ eccedenza di significato e di impatto sociale di ogni nostro comportamento, sia pure elementare.
La rete favorisce le “relazioni”, anzi è fatta di relazioni e queste sono l’elemento costitutivo che identificano la ” persona”, ne esprimono per intero la ricchezza originaria, ontologica. Insomma, la “rete”, se vissuta consapevolmente, ad un tempo, segnala la complessità della nostra convivenza civile e ne sottolinea il valore di arricchimento della singolarità, dell’unicità irripetibile che fonda la dignità di ognuno. Insomma, siamo indotti a rientrare in un orizzonte culturale di carattere autenticamente “personalista” che si radica in una visione cristiana dell’uomo e della vita.
Nel contempo, questa dimensione, che potremmo chiamare “espansione globale” dell’incidenza di qualunque gesto umano – e lo sperimentiamo nelle concrete dinamiche di diffusione del virus- evoca un nuovo, ampio e straordinario sentimento della responsabilità personale di ognuno che rappresenta, a sua volta, una ricchezza cui fortunatamente non possiamo sfuggire.
Domenico Galbiati

About Author