Il 1 luglio ricorda a molti l’arrivo delle privatizzazioni in Italia. Quel giorno, infatti, ci svegliammo “privatizzati” a seguito della decisione di liquidare un importante pacchetto di aziende pubbliche presa il giorno prima dal Governo Ciampi. Un esecutivo insediatosi da poco più di un mese e che, quindi, con il senno del poi, potremmo pure pensare che fosse un Governo “di scopo”, ancorché non annunciato ufficialmente.

Enel, Agip, Imi, Stet, Credito italiano ed altre società furono cedute. Cominciammo a svendere i “gioielli” di famiglia per quella che i più convinti sostenitori dell’intervento pubblico in economia potrebbe essere davvero una vera e propria spoliazione. Eravamo nel pieno di “Mani pulite”, si celebrava il “bello” del privato, contrapposto al “male” del pubblico. Si cominciava a sentire il ritornello, che poi avrebbe preso sempre più il ritmo alla “Carmina burana”, del “lo vuole l’Europa”, e incombeva il macigno del Debito pubblico.

Trent’anni dopo, svenduti autentici patrimoni collettivi, ci ritroviamo con un Debito pubblico che continua a crescere: è giunto al 31 dicembre dello scorso anno a 2.678,4.

Le nostre privatizzazioni, purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno significato autentiche liberalizzazioni ed è questo che ci pone davvero in contraddizione con quanto accaduto in altri paesi evoluti, oltre che a far diventare quelle del ’93, ed altre privatizzazioni poi seguite, delle mere operazioni di “svendita” a favore di gruppi finanziari ed economici internazionali e nazionali e non un’operazione di crescita per l’intero paese.

Allora si era nel pieno della “passione” per il libero mercato. Oggi ci chiediamo se non abbiamo bisogno di altro. Ad esempio, andando oltre la continua polemica su più Stato o più mercato e provando ad applicare un po’ più di Economia civile, come ci ricorda sempre Stefano Zamagni.

Alessandro Di Severo

 

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