Devo le riflessioni che seguono (quasi una confessione a cuore aperto) al Prof. Stefano Zamagni. L’aver ascoltato più volte la sua distinzione fra trasformazione e riforma nel contesto politico mi ha chiarito la differenza che intercorre – sul piano spirituale – fra vera conversione (trasformazione) e un’appartenenza alla Chiesa che, seppur fedele e costante, resta bloccata ad una serie di “riforme interiori” che non connotano una fede adulta e matura. Così, quello che da anni avevo nel cuore ha potuto uscirne: è bello che sia offerto e un onore che sia condiviso coi cristiani di INSIEME.

 

  1. Userò qualche volta l’espressione “sono consapevole”. L’uomo si distingue dagli animali anche per questo: la capacità di autoconsapevolezza. Tuttavia, se per le realtà materiali (l’estremamente piccolo e l’estremamente grande) le conoscenze umane sono ancora molto limitate, per la comprensione del proprio sé le cose non vanno meglio: conosciamo poco dell’ “abisso” del nostro cuore e della nostra mente. Cosa che permette agli psicologi e agli psicoterapeuti di guadagnarsi da vivere. Ammetto dunque con facilità che la mia consapevolezza di quanto è in me è limitata e può essere (nel migliore dei casi) solo parzialmente esatta.
  2. Riconosco quanta saggezza sia racchiusa nell’antico aforisma latino: “quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur”. In quel “ad modum” sono racchiusi le precomprensioni, i filtri, le incapacità di vero e paziente e coraggioso ascolto, gli equivoci dei malintesi che fanno sì che – non poche volte – chi parla affermi A e l’ascoltatore recepisca B (o addirittura Z!).
  3. Conosco la dinamica scoperta da Dunning-Kruger, scientificamente dimostrata, in forza della quale meno si sa più si è convinti di sapere. All’ignorante, allo stolto, manca la meta-cognizione. Il superbo sciocco non propone il suo pensiero: piuttosto è convinto di conoscere ed offrire “la vera verità”, non tollera di venir corretto, non accetta che il suo convincimento non sia condiviso (“sono tutti scemi e non mi capiscono” oppure “è un complotto contro di me!” …), non ritorna mai sui suoi passi e continua a ripetere i suoi slogan come un mantra. Diversamente, i veri sapienti saggi riconoscono la loro ignoranza e i limiti delle loro competenze, sanno trarre frutto dalle obiezioni, sanno riformulare le loro ipotesi, addirittura abiurarle se convinti che ciò debba essere fatto.
  4. Non scorderò mai la definizione di superbia regalatami da un presbitero del Congo: “La superbia è la coperta corta sopra un’umiliazione mai digerita”. Poiché sono consapevole di tante umiliazioni che ancora sanguinano e mi suscitano mormorazioni, ammetto di essere fortemente candidato alla superbia.

Poiché sono anche conscio di molti miei limiti (di intelligenza di base, di cultura, di competenza in molti campi e – in modo particolare – in quello che qui sto affrontando) so che posso espormi ad una forma particolarmente ridicola di superbia: quella di chi proprio non se la potrebbe permettere perché non ha proprio nulla per cui potrebbe a buon diritto montare in superbia.

  1. Quando un cattolico si addentra nella materia del sacro, della religione, della fede, della conoscenza di Dio deve tenere ben presente che l’uso della ragione non gli consentirà di capire tutto. Dio, nella sua santità e nella sua trascendenza, resterebbe del tutto inconoscibile se non si fosse rivelato. Ma, pur avendolo fatto, non lo ha fatto in toto: ha però promesso che nello stato di Paradiso ci consentirà di vederlo e di conoscerlo molto meglio. Cionondimeno, la sua sostanza trascenderà sempre la nostra possibilità (la capienza della nostra mente di creature) di afferrarlo completamente. Già alcuni atteggiamenti, parabole e affermazioni di Gesù contenute nei Vangeli ci fanno intuire come la logica divina possa apparirci sorprendente e sfuggente. Possiamo, se rettamente formati, intuire qualcosa di Lui oltre il ragionamento (“l’intuizione è più della ragione”) aggiungendo a quello della mente il lavoro del “cuore”, cioè di quella istanza metafisica e meta-razionale contenitore ed elaboratore dei nostri valori, delle nostre emozioni e del nostro temperamento.

Dunque, dobbiamo avere l’onestà e l’umiltà di ammettere il mistero, cioè l’esistenza di quanto non afferrabile con gli strumenti e le potenzialità della nostra ragione. Una parte, non sappiamo quanto grande, di quanto ci è mistero è destinata ad esserci svelata nell’al di là mentre un’altra, di entità anch’essa sconosciuta, ci resterà per sempre segreta.

  1. Ragionare, provare a trovare le risposte ad interrogativi interiori, confrontarsi (a voce o per iscritto), proporre il frutto dei propri sforzi, accennare possibili soluzioni o miglioramenti non mi appare un’attività riconducibile tout court alla superbia. Leggiamo ogni giorno nell’Ufficio delle Letture brani dei Padri della Chiesa: essi, certamente illuminati dalla fede e dallo Spirito Santo, hanno studiato, scrutato, scritto e proposto i loro insegnamenti che oggi nutrono la preghiera quotidiana dei fedeli: non credo proprio che la Chiesa ci proponga il frutto di un’attività che ha per propulsore la superbia! In Mc 12, 33 Gesù riconosce saggia la replica dello scriba che prima lo aveva interpellato: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Quindi usare la quantità di intelligenza che si ha a disposizione per amare (e conoscere) Dio è cosa buona; diverso è invece usarla a scopi egolatrici.

Per quanto sopra, affermazioni quali “tu pensi troppo, tu ragioni troppo! …” oppure “vai cercando di capire tutto con la tua testolina” o peggio “la tua? solo superbia, lasciatelo dire …” andrebbero – se non circostanziate ed argomentate – rimandate al mittente. Esse hanno motivo di essere proferite solo se è dimostrabile che l’accusato – nell’interrogare e nell’interrogarsi – sta usando la propria ragione con attitudini di superbia: infatti, non è il ragionare in sé che deve essere condannato bensì il ragionare da stolto (vedi punto 3).

  1. Mi provoca un certo malessere l’ascoltare frasi del tipo “siamo povere creature”, “siamo dei miserabili” e altre simili. Dio era molto compiaciuto di quanto aveva fatto al termine della creazione: non aveva creato degli imbecilli o delle marionette con cui dilettarsi. Dio ha creato gli uomini e le donne dotandoli di un corpo che è una catechesi esplicita della sua infinita intelligenza e potenza. Anche le risorse della nostra mente sono straordinarie e non ancora sufficientemente esplorate: gli attuali, continui, progressi della tecnologia sono stupefacenti. Soprattutto, elevandoci in modo irraggiungibile al di sopra delle bestie, Dio ci ha donato la capacità di essere liberi (dono meraviglioso e tremendo insieme). Siamo dei capolavori viventi! Certamente non siamo Dio, ma solo sue creature (con tutto quello che questo comporta). Siamo anche creature decadute, a causa del peccato originale. La nostra bellezza è stata deturpata da quella colpa primigenia, da quella ferita. Chissà come eravamo speciali, prima!
  2. Mi sono posto questa domanda: nel giardino dell’Eden, prima della colpa, l’uomo e la donna avevano, senza uno speciale aiuto divino, la capacità propria di resistere alla tentazione di Satana? Mi sono risposto di . Diversamente, il peso della loro colpa si ritorcerebbe su Dio il quale avrebbe permesso che essi fossero esposti ad una prova che soverchiava le loro forze: cosa che equivale ad affermare che difronte alla forza della persuasione maligna essi non potevano che cedere, cioè non erano liberi (anche) di resistere (cosa che negherebbe la sostanza della loro libertà).

Proprio il fatto che Adamo ed Eva erano liberi è alla base della loro responsabilità e della loro colpa.

Ci è voluto circa un millennio perché la Chiesa arrivasse alla prassi attuale del sacramento della Riconciliazione (Cathopedia, CLICCA QUI ) prendendo atto che il sacramento del Battesimo ha sì la capacità di perdonare la colpa d’origine ma non di estirparne le conseguenze: “la vita nuova ricevuta nell’iniziazione cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura umana, né l’inclinazione al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale rimane nei battezzati perché sostengano le loro prove nel combattimento della vita cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo. Si tratta del combattimento della conversione in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore non cessa di chiamarci” (Catechismo della Chiesa Cattolica, paragrafi 1425-1426, CLICCA QUI ).

Mi immagino allora che l’opera del Battesimo si possa raffigurare con questa allegoria: un giardiniere che rasi l’erba del prato, foglie buone e foglie di infestanti, senza svellere le radici di quest’ultime; prima o poi esse rigenereranno foglie deturpando nuovamente il campo …

In questo contesto, siamo stati avvisati e educati a non dare spazio alle insinuazioni del Maligno che usa la mente e i suoi ragionamenti come “cavallo di Troia” per insinuarvisi e deviarli da Dio: l’astuzia di Quello è – ora sì – irresistibile se non fuggiamo immediatamente i suoi sofismi e non chiediamo l’aiuto del Cielo.

La Chiesa ha preso atto, rigettando le pretese di certe correnti “esigenti”, che siamo su un piano troppo scivoloso perché i più riescano a restare in piedi e a resistere al Demonio. È necessario quindi ricorrere – secondo le parole con cui San Giovanni Paolo II definiva la Riconciliazione – alla forza di “un nuovo (secondo, terzo, millesimo, milionesimo) Battesimo” affinché – usando l’allegoria di prima – il prato torni ad essere ben rasato (anche se le radici infestanti resteranno fino all’ultimo lì sotto a fare la loro parte).

  1. Conosco la dinamica del “già e non ancora”: “siamo figli (adottivi ndr) di Dio e lo siamo veramente” ma la nostra trasformazione avrà totale compimento non durante la nostra esistenza terrena ma dopo, “in altra sede”, in altro “stato”.

L’enciclopedia Treccani scrive a proposito di “trasformazione”: “L’atto, l’azione o l’operazione di trasformare, il fatto di trasformarsi o di venire trasformato, che comporta un cambiamento, per lo più profondo e definitivo, di forma, aspetto, strutture o di altre qualità e caratteristiche”. Per il punto 8, finché siamo su questa Terra, nel tempo e nello spazio, dobbiamo accettare che germi di santità siano mescolati a radici di empietà, che la nostra trasformazione sia incompleta, “in progress”: cioè, che non sia definitiva, completa e una volta per sempre, bensì parziale e precaria.

Ricorrendo ad un’altra allegoria: come un pesce che si trasformi in una colomba anche se brandelli delle antiche squame persisteranno per sempre fra le ali dell’uccello. Orbene, si può accettare che vi sia stata trasformazione se quella colomba – pur imbrattata da squame – voli, emetta suoni, non sia a suo agio sott’acqua …; e se tutto questo avvenga non per attimi o brevissimi periodi ricorrenti ma per la totalità del tempo. Al contrario, se ciò non avvenisse, affermare che si è data una metamorfosi sarebbe uno sbaglio.

  1. È bene ricordare che tutti i passi in avanti verso la santità possono andare perduti in un istante e ci si può ritrovare, abbattuti e sgomenti, ben prima del punto di partenza. Questa è l’abilità, il potere del demonio.

Sappiamo però anche che la preghiera è figura dell’ “uomo forte, e bene armato, che fa la guardia al suo palazzo”, alla sua casa dopo che è stata “spazzata e (resa) adorna” (Lc 11, 21-26). Cosa che equivale a sostenere che, dopo la conversione, la preghiera costante e intensa può – per grazia – rendere eccezionale (anche se sempre possibile) che “una colomba torni ad essere totalmente un pesce” mentre invece è assai più verosimile che si liberi sempre più delle squame residue.

  1. Per quanto sopra, siamo chiamati – nel nostro itinerario, nel cammino del Battesimo e della conversione – ad una forma estrema di umiltà: quella di avere pazienza con noi stessi, di accettare il fatto che restiamo peccatori. Nella recita del Padre Nostro chiediamo che ci vengano rimessi “i nostri debiti”; nell’Ave Maria chiediamo alla Madonna di intercedere per noi “che siamo peccatori”. Essere umili vuol dire accettare questa umiliante verità: restiamo sempre capaci di peccato. È questa la conseguenza del peccato originale.
  2. Una santa della portata di Caterina da Siena affermava di sé di essere “nulla più il peccato”. Uno psicoanalista laicista francese, con la consueta spocchia transalpina, osserverebbe subito: “C’est une fausse humilité : c’est du pur narcissisme ! Ce qu’elle voulait, c’était être un numéro 1, et se définir ainsi était la voie qu’elle avait pour atteindre son but !”. Io credo nella sincerità di Caterina ma ritengo che, pervenuta ad un grado estremo di elevazione spirituale, percepisse come devastante ogni minima mancanza di corresponsione di amore a Cristo. Come San Francesco d’Assisi e tantissimi altri santi, canonizzati e no.
  3. Nessun cattolico si sognerebbe di affermare che Santa Caterina non era autorizzata a “misurare col bilancino la propria fede”, a fare simili affermazioni di umiltà, a giudicare la propria anima. Non ritengo che a lei venga oggi accordata una dispensa speciale dopo la sua acclarata santità. Per quanto espresso nei punti 6 e 12, sono propenso a credere che – sempre tenendo ben presente che l’Accusatore non smette mai di soffiare nel nostro cuore – quello che accordiamo alla Senese vada accordato a tutti: ci è lecito avere ed esprimere la nostra percezione della strada che abbiamo fatto nel cammino della conversione. Dio – direttamente o attraverso suoi inviati – smentirà o confermerà il nostro sentire.

In un altro contesto: dopo che ci siamo chiesti se la persona che vorremmo sposare è “quella che Dio ha scelto per noi”, la seconda lecita e ragionevole domanda è “Sento di amarla veramente?”. Ovvio che saranno i fatti concreti della vita ad indicare se avevamo decodificato bene la volontà di Dio e se la nostra percezione era veritiera: ma è pur vero che la nostra iniziale intuizione derivava dall’elaborazione di esperienze reali vissute fino a quel momento e non da sogni ad occhi aperti.

Infine, da sempre la Chiesa ci invita a fare (almeno alla sera) l’esame di coscienza: esame che presuppone la nostra capacità di discernere, con sufficiente approssimazione, il male ed il bene compiuti nelle ore precedenti; in modo più preciso, le intenzioni del cuore con cui abbiamo compiuto fatti concreti. Ebbene, questo processo interiore serve (anche) a verificare se stiamo procedendo nella via della conversione ovvero in senso opposto.

  1. Proprio donne come Santa Caterina e uomini come San Francesco (e santa Teresa di Calcutta, e il beato Livatino, e il politico La Pira e tanti, tanti altri) ci confermano che – per grazia di Dio (ovviamente! E non torniamoci più sopra! per favore!) – A VOLTE È POSSIBILE una santità praticamente sovrapponibile a quella descritta nei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. È possibile cioè che alcune persone, pur non risparmiate da peccati minimi, siano veramente convertite, trasformate, conformate a Cristo, santificate, rese testimoni dell’amore di Dio, illuminate nel cuore e nella mente dallo Spirito Santo, capaci di una profonda eroica fede adulta.

La prova del nove dell’avvenuta conversione ce la fornisce San Paolo: “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rom 8, 9). Non si può accettare che l’apostolo delle genti fornisse criteri di discernimento per un sogno, per un’utopia: le sue parole ci confermano che la metamorfosi spirituale può davvero avvenire.

Peraltro, la verifica è esigente perché lo Spirito di Gesù non è cosa da bonaccioni, da “piacioni”, da compromessi, da “mezzo e mezzo”: la sua vita e la sua passione ce ne indicano lo splendore immacolato.

C’è però una condizione perché si realizzi in noi l’appartenenza a Cristo: “se davvero prendiamo parte alle sue (di Gesù ndr) sofferenze” (Rom 8, 17). Conviene tenere a mente questo passo per quel che dirò al punto 18.

Anche se esistono conversioni fulminee (si pensi a quella di André Frossard, intellettuale ateo francese, convertitosi in 10 minuti dopo essere entrato per caso in una chiesa), ordinariamente il processo di conversione è una lenta gestazione che si svolge “nell’utero della Chiesa”.

  1. Nel famoso passo di Rom 7, 14-25 San Paolo afferma di sé: la forza del peccato che abita in me (il peccato originale, ndr) supera la forza della mia volontà cosicché sono costretto a fare “il male che non voglio”. Mi sembra che questo passo paolino confermi il contenuto dei punti 8 e ss. Non c’è una liberazione totale e definitiva dalle conseguenze del peccato originale: resistere al Demonio è, dopo la colpa primigenia, difficilissimo perché i margini di esercizio della libertà di opposizione sono ridottissimi. Anche se non del tutto annullati. La loro conservazione è ora vincolata all’accettazione dell’alleanza che ci viene offerta da Dio, ad esempio mediante i Sacramenti: essi veicolano a noi la forza della sua potenza misericordiosa. Senza l’aiuto di Dio, adesso, non possiamo che soccombere ogni volta che l’Ingannatore si avvicina a noi.

Insomma, grazie a Dio (è proprio il caso di dirlo!) siamo ancora liberi.

La nostra libertà mantiene la nostra imputabilità, la nostra responsabilità, la nostra colpa per i nostri peccati.

  1. Mi capita spesso di ascoltare, dentro e fuori dalle Parrocchie, cattolici che esprimono vissuti raramente edificanti, per lo più depressivi, avviliti, sfiduciati. La grande maggioranza afferma, perlomeno indirettamente, di non essere convertita, di non avere fede, di aver perduto lo zelo, di non essere più in grado di fare le cose fatte in passato, di avere le stesse debolezze di un tempo, di mormorare, di non accettare la propria storia.

Da diversi anni, simili testimonianze mi hanno colpito molto perché in esse ritrovo la mia esperienza (esperienza, si badi bene, non la mia interpretazione, il mio tentativo di spiegazione dei fatti che è a quelle posteriore).

Quello che molti cattolici affermano di sé riferendo le proprie storie nei gruppi di lavoro, rispondendo a questionari, nelle confidenze e negli sfoghi personali è inequivocabile. La maggioranza ha avuto memoriali, cioè brevi esperienze di conversione reale ed autentica: di grande splendore sì, ma simile a quello delle comete che solcano i cieli estivi destinate a spegnersi presto nel buio siderale. Esperienze (siamo giustamente invitati a ricordarle!) capaci di confermare la potenza di Dio a cui “tutto è possibile”, a rinfocolare la fede e la speranza senza però essere evolute in uno stile di vita rispecchiante la “fede adulta”.

Per certi versi, accade quello che provo ad esprimere ricorrendo ancora una volta ad una allegoria. Immaginiamo un contesto culturale antico, tradizionale ma “illuminato”, diciamo … nell’Ottocento, nell’Italia del Sud … ma anche ad Oriente … Un padre mette gli occhi su una ragazza e la trova adatta a darla in moglie al suo unico figlio. Perciò la invita presso la sua casa e fa in modo che possa conoscere il ragazzo. Costui ben presto se ne innamora: ricopre la donna di ogni casta attenzione, le fa regali eleganti e preziosi, la sorprende con la creatività tipica degli innamorati, scusa ogni difetto che pur in essa scorge, la rispetta e la onora. Dopo un tempo congruo, il padre del ragazzo convoca la giovane e le domanda se in lei è sbocciato l’amore per suo figlio. Sorprendentemente, la giovane risponde: “Io provo per vostro figlio un sentimento di sincera amicizia, di ammirazione, di riconoscenza per tutto il bene ricevuto. Sono consapevole dell’onore che mi è stato riservato, del tutto sproporzionato alla pochezza della mia persona. Ma, se devo essere franca, io non provo per lui amore. Questo, sinceramente, mi pesa e mi fa sentire in colpa ma è quello che sento”.

Se poi gli amici della ragazza la convincessero a restare nella casa del giovane perché “al cuor non si comanda” e la scintilla dell’amore può sempre scoccare in modo imprevedibile … la fanciulla rischierebbe di consumare i suoi giorni gravata da un senso di colpa per un evento che ella sa bene quanto trascenda il suo sentire ma che non arriva … Certamente non si lascerebbe convincere che l’amicizia che prova per il ragazzo che continua a corteggiarla sia l’amore di cui le parlano e le testimoniano le poche donne fortunate che lo vivono con i loro mariti.

Quando le circostanze lo consentono, a volte pongo una domanda diretta ed impertinente “Dunque, anche tu – come me – non sei convertito/a?”: i più sfuggono la risposta franca e, con un salto logico, credono di rispondere affermando la certezza di essere accettati da Dio “così come sono”. Cosa, questa, certamente vera e commovente ma non calzante. Perché la conversione è precisamente tutto ciò che avviene dopo la scoperta dell’amore fedele e incondizionato di Dio; è la nostra risposta a quella scoperta e non la scoperta in sé.

Allora, ho iniziato ad interrogarmi: è possibile, nel XXI secolo, raggiungere una conversione che sia una reale trasformazione spirituale e non una banale “riforma” della vita, dell’esistenza?

La risposta qualitativa la forniscono alcuni fratelli e sorelle che danno gloria a Dio con la loro vita davvero trasformata, con un cuore genuinamente convertito, con uno stile di vita che trasuda fede matura, con un sincero e ardente amore a Dio. Oltre ai fatti concreti che essi testimoniano, emana da essi un profumo di gioia interiore e di santità che muove alla “santa” invidia.

È da un punto di vista quantitativo che – a mio avviso – esistono limiti evidenti.

I molti battezzati che ammettono a denti stretti la loro estraneità rispetto all’ “uomo nuovo”, alla “creatura celeste”, all’essere un “alter Christus”; alla capacità di amare, anche i nemici, mettendo il Tu davanti al proprio Ego; di compiere lo Shemà; di benedire Dio proprio per la croce che ha marcato l’esistenza, comprendendone la saggezza e la bontà; di considerare santa e benedetta tutta la storia che Dio ha permesso nella vita, gioie ma anche dolori e croci, quand’anche terribili … non si fanno del bene rispondendosi o affermando che “beh … certo! … si resta l’uomo di sempre, con lo stesso carattere, con gli stessi peccati, con la stessa miseria”. Il rischio, grave, è quello di mettersi a posto la coscienza al prezzo di banalizzare (di fatto, negare) la realtà della conversione autentica.

Che cosa penseremmo del pubblicano Zaccheo, della sua memorabile conversione, se – dopo pochi giorni dal suo ravvedimento e dai risarcimenti effettuati – lo trovassimo ancora lì, al suo banco delle imposte a fare l’esattore per i Romani? E se, interrogato a proposito, rispondesse: “Beh … cosa volete? Ho fatto un bel gesto, no? Penserete mica che cambi mestiere! Ogni tanto, quando posso o quando mi va, chiedo una percentuale inferiore … Però adesso, sento che quel Gesù mi vuole bene!”. Ovvio che tutto questo potrebbe succedere vista la libertà umana, la debolezza dopo il peccato originale e la forza della tentazione: ma non è di questo che sto parlando. Piuttosto, della possibilità di definire ancora “vera conversione” quella di Zaccheo tornato esattamente al lavoro di prima!

E se San Paolo, stufo di essere rifiutato e percosso dagli ebrei, tornasse alle sue violenze di un tempo ed organizzasse pogrom, stavolta contro i suoi persecutori? Di fronte a ripetuti episodi del genere, saremmo ancora disposti a credere ad una sua vera trasformazione?

Restare in massima parte “l’uomo vecchio” non è una variante “più umana”, realistica, della conversione: ne è la negazione! Se il nostro pensare, il nostro agire, il nostro essere è conformato all’uomo di prima, non si può affermare che questo è “compreso nel «pacchetto della conversione» di noi povere creature miserabili”. Piuttosto, occorre avere il coraggio di ammettere che il processo di conversione non ha funzionato e che non è avvenuto ciò che può avvenire. Perché, appunto, la vera conversione esiste, la vera trasformazione non è un’utopia, la fede adulta viene accordata: eccome! Cosa leggiamo nelle seconde letture dell’Ufficio? Un esempio, fra tanti: Sant’Ignazio che scriveva ai Romani e scongiurava di essere lasciato morire in pasto alle belve, che voleva “non dichiararsi cristiano ma esserlo veramente” era … di Antiochia o … di Marte?

L’uomo nuovo, l’uomo delle Beatitudini Dio lo fa, lo realizza, lo concede! Solo, non “a pioggia”, non a tutti: è una grazia che regala ai pochi che elegge, quando come e quanto vuole. “E più non dimandare!”.

Ne consegue che anche all’interno della Chiesa ci sono “sale/luce/lievito” assieme a persone con conversione bloccata. Invece, tutta la Chiesa, come realtà mistica, è sale/luce/lievito per il mondo.

Nessuno può sapere a chi toccherà il dono prezioso della vera conversione e della santità. Pertanto, tutti sono invitati a proseguire il cammino con umiltà e speranza perché nessuno conosce in anticipo il volere e i tempi di Dio onnipotente. Del resto, in questi anni, anche solo “stare sulla soglia della casa di Dio”, essere coinquilini di (pochi) santi, avere una comunità parrocchiale di appartenenza, essere iniziati a scrutare le Scritture, fare esperienze di perdono, gustare la dolcezza dei Sacramenti, essere accompagnati da fratelli e molto altro è una grazia incommensurabile per la quale si può gridare un convinto e riconoscente Dajenù!

  1. Il mio pensiero non sarebbe onesto se attribuissi al “capriccio” di Dio tutta la responsabilità delle mancate conversioni, la mia compresa. C’è anche una responsabilità personale, una mia responsabilità personale. Mi sono chiesto allora: quale è l’obex, l’ostacolo della mia conversione?

Immediatamente ho pensato ai miei peccati: essi sono stati sì perdonati da Dio ma le loro conseguenze rimangono. Sono dunque motivato ad un processo di continua purificazione: dal dolore delle conseguenze comprendo la gravità delle colpe commesse ma anche la vastità infinita della misericordia di Dio che quei peccati ha perdonato.

Sono andato più a fondo. Mi sono chiesto: potrebbe essere che, inconsapevolmente, nel profondo del mio cuore io desideri/scelga di non accettare il dono della fede e della conversione? Cioè che – senza rendermene pienamente conto – io scelga, nella mia libertà, altro da Dio, che scelga di non amarlo? Confesso che questa ipotesi mi lascia basito, sconcertato: avrei dunque fatto anni e anni di viaggio verso una meta che NON voglio raggiungere??? Che tragedia surreale! Ma, se comunque le cose stessero così, perché stanno così?

  1. Essere cristiani nel XXI secolo è diventato scomodo e pericoloso come nei primi tre secoli della vita della Chiesa. In Paesi diversi dall’Europa, i cristiani sono di nuovo perseguitati, minacciati, oppressi, imprigionati, derubati, percossi, torturati, uccisi fra atroci tormenti. Diversamente, nel “vecchio Continente” c’è diffusa irrisione, intolleranza, fra poco impossibilità di esternare i propri convincimenti se diversi dal “pensiero unico” imposto dalle lobby che controllano partiti, media, giornali e che spadroneggiano nella “rete”.

Essere cristiano richiede oggi – contrariamente a quanto si era soliti sperimentare fino a 10-20 anni fa – molto coraggio e l’accettazione della probabile esperienza del dolore. Molto rapidamente, l’appartenenza alla fede cattolica non ha più rappresentato una garanzia di vita sicura accompagnata dall’approvazione e dal consenso generali bensì un vulnus alla propria immagine. Proclamarsi pubblicamente cattolici oggi vuol dire rischiare, stare permanentemente sui carboni accesi di una irrisione generalizzata e affilata: occorrono, insieme a tantissima preghiera, coraggio, studio, dedizione, intelligenza, capacità apologetica. Occorre, ancor più che in passato, una fleboclisi permanente di Spirito Santo!

Quanto sopra si aggiunge a ciò che già di base è richiesto per l’ “ordinaria” pratica dell’amore. Infatti, questa è inscindibile dall’esperienza anche della sofferenza. Chi non vuole soffrire non può amare; chi fugge in ogni modo il dolore fisico e morale fugge anche dalla via dell’amore. Se l’amore è luce, la paura della sofferenza è come un “buco nero” che imprigiona quell’energia: nulla entra e nulla può uscire perché la forza di gravità (l’io torto su se stesso dal terrore) è troppo forte e continua a prevalere.

Io credo che, in questa temperie, a bloccare la conversione sia la paura della sofferenza; non la paura della morte tout court ma del dolore psico-fisico che può precedere quella come accompagnare ogni genuino percorso di amore. Si può percepire un genuino anelito di accoglienza della fede in Dio e – al tempo stesso – rimanere paralizzati dallo spavento del Calvario.

Mi viene in mente questa immagine. Un fiume con due sponde: su una di esse il terreno è brullo, le piante rinsecchite, gli animali affamati e aggressivi, le persone lacere consunte violente, abbattute, senza speranza. L’altra sponda è invece ricoperta da vegetazione lussureggiante, gli alberi sono frondosi e pieni di frutti, gli animali mansueti; persone con evidenti cicatrici sul loro corpo passeggiano serene e sorridenti invitando in ogni modo quelli dell’altra riva ad attraversare il ponte che le separa. Sul ponte però, una ciurma di soldataglia è pronta a massacrare di colpi coloro che provano a passare dall’altra parte: il transito rimane sì possibile ma pagando un pedaggio di percosse senza pietà. Così, la maggior parte delle persone, pur desiderando con tutto il cuore l’attraversamento, rimane bloccata nella situazione in cui è per il terrore del dolore.

  1. L’Enciclica Salvifici doloris, che ricordo di aver letto, sottolinea la positività del dolore per la persona che l’affronta con lo sguardo puntato sul Crocifisso, invece che sulla croce. Egli è la luce che illumina il cammino durante l’esperienza del dolore umano. Non esiste l’anestesia generale nella vita cristiana: c’è solo l’accompagnamento nel dolore.
  2. Benedetto XVI, nella sua catechesi del 24.05.2006, analizza con grande acume un dialogo fra Gesù e Pietro. Allorché il Maestro si rivolge all’amico chiedendogli se questi lo ama (ed usa il verbo che inequivocabilmente esprime l’amore pieno, maturo, incondizionato – l’ἀγαπάω greco) il pescatore gli risponde che gli vuole bene (ma usa il verbo φιλέω, che esprime un amore di semplice amicizia). La scena si ripete con il medesimo risultato, come se il discepolo non riuscisse a (o non volesse) comprendere la vera domanda. Infine, è Gesù che “si piega”, che si accontenta di un amore “minore”, di quanto quel discepolo pauroso (i tre rinnegamenti … “Quo vadis?” …) aveva a disposizione. Cosa poi il Figlio di Dio abbia saputo trarre da quell’amore acerbo fino a fare di Pietro un martire, crocifisso a testa in giù, è a tutti noto.

Dunque, Dio attende, fino all’ultimo, che si maturi una decisione che è del cuore e della mente: accettare di soffrire, confidando nella Grazia e nei doni dello Spirito Santo, credendo incrollabilmente che non verrà chiesto nulla di più di quanto è possibile sopportare in forza degli indispensabili aiuti divini che saranno regalati (1 Cor 10, 13). Rotta infine la cappa egoistica mantenuta dal terrore, la luce dell’amore entrerà, opererà la vera conversione e conferirà l’audacia di corrispondere al fuoco dell’amore di Dio e di irradiarlo. Tutto questo solo se Dio lo vuole e comunque secondo i tempi e la misura da lui insindacabilmente stabiliti. La Chiesa, come la singola comunità parrocchiale, è il laboratorio alchemico in cui – in forza della Parola, della liturgia, dei sacramenti, dello Spirito Santo – alcuni uomini paurosi possono diventare coraggiosi, accettare il dolore nella propria vita e conformarsi a Cristo.

Possiamo solo attendere: “Nella speranza infatti siamo stati salvati.” (Rm 8, 24).

Dunque, fede e speranza all’opera in attesa che maturi la carità. Un processo che per molti (io sono fra questi) può essere lentissimo, travagliato, a bassa resa. O avverarsi solo per flash ben presto assorbiti e dimenticati nella routine di sempre. O non avverarsi mai.

Lo “sblocco” (regalato da un “tocco dello Spirito Santo”), se mai avverrà, rimane imprevedibile all’interessato; sarà una sorpresa di Dio, abituato ad essere elegante quando fa doni. Una simile carezza divina non può essere promessa e garantita da un carisma, da una pastorale, da una metodologia. È opera gratuita dello Spirito Santo: guai a rubargliene la gloria! “Io, il Signore, l’ho detto e lo farò!” (cfr. Ez, ad es. 37, 14).

  1. Se, nonostante tutte le buone intenzioni, il Demonio mi ha messo nel sacco, mi ha indotto alla dissimulata superbia, al “rancore” verso Dio … io adesso non so vederlo. Chi mi ha letto fin qui preghi per me affinché io, eventualmente, me ne emendi.

Roberto Leonardi

 

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