Lo ha spiegato per tempo Sant’ Agostino: “Se lo comprendi, non è Dio….”. Un monito risuonato, profeticamente, secoli prima che Galileo ci donasse la “scienza”, come la intendiamo oggi. Un monito che tanto più non va scordato quanto più il progresso della conoscenza scientifica ci spinge verso i “paradisi” della tecnologia maggiormente avanzata ed, apparentemente, così illimitata da potersi credere sufficiente a sé stessa. Tale da rinfocolare il fantasma autoreferenziale di quella “autofondazione” dell’ uomo che, privato della percezione della vita come dono, lo consegna alla sua solitudine.

Un monito che ancora dimostra quanto sia necessaria ad un corretto impiego delle nostre facoltà mentali ed intellettive la sinergia tra pensiero filosofico ed esperienza scientifica. Dio non è un ente, un oggetto tra gli altri – sia pure, seguendo Anselmo, “Colui di cui non si può pensare nulla di maggiore” – e non può essere sottoposto, catturato, ridotto alla misura di nessuna indagine scientifica.

Non compete alla scienza dimostrare che Dio esista oppure no. Galileo, che di scienza se ne intendeva, lo sapeva talmente bene da insegnarlo al Cardinal Bellarmino ed ai suoi interlocutori dell’epoca.

La stampa ha riferito una affermazione del Professor Parisi, recentemente insignito del Premio Nobel per la fisica – pare tratta da una vecchia intervista di parecchi anni fa – secondo la quale Dio, per lui, non sarebbe neppure un’ipotesi. Affermazione ineccepibile se a porla è lo scienziato come tale. La scienza è, dev’essere, per sua natura, in un certo senso, “metodologicamente” atea, in quanto non può contemplare Dio come ipotesi di lavoro che dia conto della coerenza, della consistenza, delle regolarità e delle catene causali secondo cui decrittiamo i fenomeni naturali.
Se lo facessimo – ed i cultori del cosiddetto “intelligent design” scivolano in questo esiziale errore – cadremmo nella concezione di un Dio “tappabuchi” ed, in tal modo, recheremmo una difficilmente sanabile ferita alla maestà divina.

Si tratta, al contrario, di un’affermazione del tutto impropria e fuori luogo, priva di fondamento se si pretendesse di estrapolarla dal piano strettamente scientifico e, come tale, trasporla ed imporla a quella ben più vasta dimensione conoscitiva che tiene conto, anzitutto, della storia e dell’enorme portato del pensiero filosofico. Significherebbe aderire ad una concezione “ideologica” della scienza e, dunque, ad essa addirittura antitetica, ponendola, cioè, come unica ed esclusiva modalità conoscitiva a nostra disposizione. In questo caso, diventerebbe una sorta di entrata a gamba tesa, tale da sovrapporre, mischiare e confondere, compromettendoli reciprocamente, piani conoscitivi che, per quanto correlati e tali da rinviare l’uno all’altro, devono rimanere distinti. “Non overlapping magisteria” ( Non sovrapponiamo i magisteri, ndr), sosteneva, a ragione, Stephen Jay Gould.

Sono diversi gli scienziati che si lasciano prendere la mano, forse, anche comprensibilmente, mossi da un’ammirazione sincera, perfino da uno stupore e da una forma di legittimo entusiasmo o addirittura di orgoglio per gli importanti avanzamenti conoscitivi che conseguono. Non si trattengono dal valicare un confine che dovrebbe, invece, essere preservato e lo sanno bene anche pensatori che pure nulla hanno a che vedere con una qualsiasi credenza religiosa e si qualificano come campioni di un pensiero dichiaratamente post-metafisico.

Ci sono, probabilmente, nella cultura scientifica, intesa in senso esclusivo e stretto, forse connessa soprattutto alla sua attitudine riduzionista, una parzialità o una insufficienza di fondo che, in qualche modo, non impediscono che si scivoli in questa smagliatura di un linguaggio che, uscendo dal suo campo specifico, si sfrangia e si smarrisce. Il tratto distintivo di una persona che sia per davvero colta dovrebbe essere – ed anzi è – la coscienza del limite, la consapevolezza del fatto che qualunque specifica competenza, per quanto ben fondata, è circondata da un oceano di ignoranza, la convinzione che la propria modalità di approccio alla realtà del mondo, non è mai esaustiva, non risolve in sé la ricchezza inesauribile della natura, bensì convive con altri versanti conoscitivi e deve rispettare la prossimità ed, ad un tempo, i confini tra il proprio dominio e gli altri. Si corre il rischio, talvolta cedendo ad una sorta di “clericalismo” della scienza, rischiandone quella torsione ideologica che ne contraddirebbe alla radice la natura, di cadere in una deriva d’intolleranza pericolosa, ma soprattutto risibile e sciocca.

Un paradigma di tale involuzione risale all’ormai lontano novembre 2007, quando una settantina di docenti della Sapienza alzarono il loro dolente lamento contro la “sconcertante iniziativa” – così la definirono – del loro Rettore che aveva invitato Papa Benedetto alla inaugurazione dell’anno accademico. Temevano che la presenza del Santo Padre potesse essere, di per sé, un insulto e una ferita per la sacralità della scienza. Senza che si fossero resi conto dell’abissale contraddizione in cui da soli si infilarono – e tra questi pare anche il professor Parisi – assumendo un atteggiamento che ha fatto a pugni con la “ratio” e la libertà della scienza.

A parte ogni altra considerazione circa i contenuti espressi nella lettera allora inviata al Rettore, fu la vicenda in quanto tale ad essere del tutto contraddittoria, fino a rovesciare contro sé stesso l’ assunto da cui prese le mosse e, cioè una difesa dello spirito della scienza che venne trasformata in un pregiudizio macchiato d’intolleranza.

Domenico Galbiati

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