“I proletari non sognano più di abbattere il sistema. Temono che crolli”. Questa affermazione di Marc Auge’, studioso francese della modernità, dà immediatamente conto del rivolgimento in atto.
Le “diseguaglianze”, in definitiva, sono sempre esistite, senonché oggi superano la soglia di una criticità che è diventata francamente inaccettabile e perfino pericolosa nella misura in cui segnala un possibile punto di “non ritorno” in quanto a lacerazione del connettivo sociale.
Anche nel primo dopoguerra le diseguaglianze erano evidenti – in particolare su scala geografica – ma nel clima di fiducia e speranza che ha accompagnato il processo di ricostruzione del Paese hanno esercitato un ruolo di promozione attiva della mobilità sociale. Oggi creano stagnazione ed avvelenano il clima morale del Paese.
Allora si collocavano ai margini del contesto produttivo, lo assediavano dall’esterno per cui man mano quest’ultimo ampliava i suoi confini venivano progressivamente riassorbite. Oggi si pongono come fenomeno strutturale, non periferico, bensi centrale ed intrinseco al sistema. In qualche modo, obbligato, forse addirittura necessario alla sua fisionomia così come la osserviamo.
Frutto, cioè, non delle défaillances, bensì, paradossalmente, dell’efficienza dell’apparato “globalizzato” che produce “fisiologicamente” marginalità. Un tributo da pagare al dio del mercato?
Più è sofisticato il funzionamento degli apparati produttivi, maggiore è la quantità di scarto che si accumula?
Parafrasando un linguaggio da prima Repubblica, si potrebbe dire, a grandi linee, che da un processo “ad includendum” siamo passati ad uno “ad excludendum”, a cominciare dal piano delle opportunità occupazionali, anzitutto per i giovani.
Ma esattamente di quale o meglio di quali di “diseguaglianze” parliamo? Non solo di quella economica, ovviamente.
Del resto, la povertà economica, l’indigenza è causa o piuttosto effetto delle diseguaglianze?
In ogni caso, queste non si combattono con semplici provvedimenti di redistribuzione del reddito che sono sicuramente doverosi nell’ immediatezza di una situazione di grave squilibrio, ma certo non bastano.
Ne’ si può abolire la povertà per decreto; meno che mai con provvedimenti che, se enfatizzati sul piano della propaganda politica, sembrano quasi “istituzionalizzare” il voto di scambio. Accanto a provvedimenti contingenti, occorre avere in testa una strategia politica di medio-lungo periodo, il che, certo, non significa giustificare che si vada alle calende greche, ma piuttosto iniziare subito, purche’ secondo un disegno.
Un disegno che guardando alle diseguaglianze non in modo sgranato, ogni forma per conto suo, ma analizzandole come fattori che compromettono la parità di titolo di cittadinanza dovuta a tutti ed a ciascuno, permetta di individuare delle priorità ed un percorso strategico che consentano una lotta alle povertà, appunto, in chiave rigorosamente politica, sistemica, non generosamente e meramente volontaristica.
Poste in questa ottica, vi sono almeno tre momenti da affrontare preliminarmente. Anzitutto, vanno combattute le diseguaglianze e le povertà educative e culturali. In definitiva, sono le più avvilenti ed offensive della dignità della persona; le più penalizzanti in funzione delle altre forme di disparità.
E’, quindi, necessario un grande sforzo di investimento finanziario ed insieme culturale a favore delle giovani generazioni e del sistema scolastico-formativo.
In secondo luogo, vanno combattute e superate le differenze, talvolta macroscopiche, in quanto a facoltà di accesso a servizi sanitari qualificati, quindi in ordine al diritto costituzionalmente garantito alla salute.
Un terzo livello di intervento concerne la necessità di riconoscere espressamente la domanda sociale che giunge dal vasto mondo delle “fragilità'”, nel quale, tra l’altro, svolgono un essenziale servizio di pubblico interesse le mille forme associative e di volontariato attivo di ispirazione religiosa.
Detto in altri termini, è necessario cambiare verso e dopo una lunga stagione dominata dalla cultura radical-individualista dei cosiddetti “diritti civili” – che ha letteralmente incantato anche la sinistra – si deve passare ad una robusta stagione di investimento sul piano dei “diritti sociali”, capaci di ricreare coesione sociale e senso di appartenenza all’orizzonte di una speranza e di un destino comune.
D’altra parte, si sta rivelando impossibile uscire dalla crisi ed interrompere la spirale delle diseguaglianze, immaginando di restaurare il sistema economico-produttivo per quel che è stato fin qui, con l’obiettivo di riportarlo agli splendori delle sue età dell’oro.
Ci siamo smarriti nell’avvitamento senza fine – da un certo punto in poi addirittura obbligato, perfino nostro malgrado – di una rincorsa cieca tra consumi e produzione che per troppo tempo hanno giocato a sopravanzarsi l’un l’altro, immaginando che le parole magiche dell'”innovazione”, della “flessibilità”, di un indefinito “sviluppo”, della mitica “crescita” bastassero da sé a garantire l’incantesimo di un “progresso” illimitato ed immancabile.
Dobbiamo uscire da questa ingenua concezione post-tardo-illuministica che ha avuto gravi responsabilità anche in ordine alla devastazione degli equilibri ambientali.
In caso contrario, le diseguaglianze sono destinate ad incancrenire e, del resto, già oggi assumono una connotazione avvilente, feriscono non solo il reddito, ma la dignità stessa delle persone, addirittura quell’elementare rispetto che ognuno deve a se stesso.
Cosa c’è di più umiliante, nella società rutilante dei consumi e di un lusso spesso pacchiano ed ostentato, di un padre che si presenta ai figli a mani vuote perché ha perso il lavoro e, se le cose non cambiano in fretta, deve assistere impotente al fatto che l’indigenza economica finisca per spingere i suoi figli verso una condizione anche più penalizzante di povertà educativa e culturale, di mutilazione di vere, forti, positive relazioni sociali?
Sia pure rimarginando, per quel poco che si puo’ nelle condizioni date, almeno le lacerazioni più vistose, si deve comunque promuovere ed attraversare un tempo – non breve – di maturazione di un nuovo costume civile che, a sua volta, esige un certo rivolgimento morale collettivo ed un nuovo corso del pensiero sociale, una cultura più avvertita e consapevole dei processi necessari a ricomporre, nel tempo frammentato della globalizzazione, una effettiva coesione sociale, un nuovo sentimento di appartenenza all’orizzonte di un destino comune.
Ed, a tale proposito, e’ utile partire da almeno due considerazioni. Parliamo molto di solidarietà; troppo poco di giustizia sociale. Dobbiamo restaurare il primato della giustizia sociale.
A leggerne bene i primi paragrafi, la stessa “Caritas in Veritate”, ci sollecita in questa direzione. La solidarietà rappresenta un vincolo sociale indispensabile. Non è solo un nobile sentimento. Evoca un grande paradigma di convivenza civile.
Ma prima viene la giustizia e la solidarietà deve insistere e crescere sullo zoccolo duro di quest’ultima, non viceversa.
Perché la solidarietà fa pur sempre leva su un versante soggettivo; configura il dovere di chi è in grado di farlo di soccorrere e sostenere chiunque viva una condizione costretta di poverta’ e di emarginazione.
La giustizia, al contrario, configura un diritto originario che nulla ha di discrezionale; nulla ha di concessivo; nessuno lo può assegnare, nessuno lo può revocare perché appartiene costitutivamente, alla persona, e’ connaturato alla sua dignità ontologicamente fondata. Non è la societa’ a fondarlo; lo deve semplicemente e necessariamente riconoscere.
Seconda considerazione: ciascuno di noi dovrebbe accettare, nell’interiorità della propria coscienza, di sentire, in qualche misura, quasi illegittima e, dunque, non effettivamente vera – o addirittura, per un certo verso, perfino usurpata – la propria condizione di libertà civile ove questa viva accanto a condizioni di grave ingiustizia sociale, di povertà umiliante dei propri simili o addirittura, sia pure attraverso catene causali indirette, se ne nutra, secondo quel bilanciamento gravemente disuguale dei beni e delle opportunità che risulta essere funzionale al mantenimento di un sistema in cui, a quel punto, il valore della libertà, anziché essere un diritto degli uguali, rischia di diventare il privilegio di alcuni, sia pure dei molti a scapito di altri.
In fondo per i credenti non si tratterebbe d’altro che di rivisitare il nesso necessario che corre tra libertà e giustizia, nella misura in cui sanno come ambedue questi valori che insieme danno conto della dignità e della verità dell’uomo discendano vitalmente dall’ unica Verità.
Domenico Galbiati

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