Purtroppo quando si parla di Africa la tendenza è sempre quella di considerarla un paese lontano, povero, pieno di bambini denutriti, dove “in quei posti lì” c’è sempre il sole e la gente ha il ritmo nel sangue. Scopriamo invece che l’Africa sia un continente gigantesco che vede al suo interno 54 stati e 1,3 miliardi di persone diverse per etnie e lingue parlate. Sicuramente vi sono delle similitudini nelle caratteristiche fisionomiche e comportamentali nel ceppo
Bantu, il quale nel corso dei secoli emigrò dalle zone Nord-Ovest a quelle Sud orientali del continente stesso, per cui un abitante della Costa d’Avorio avrà delle assonanze con un keniota e viceversa.

Il punto è che i popoli africani sono sempre stati in movimento quando erano alla ricerca di condizioni climatiche e di terreno ottimali per far pascolare il loro gregge, poi sono divenuti stanziali fermandosi in luoghi più consoni per l’agricoltura. Ora la ricerca di condizioni di vita migliori li spinge ad affrontare viaggi molto pericolosi e costosi, dovendo attraversare zone a rischio elevato come Niger e Libia, finendo nelle grinfie di predoni del deserto e mercanti di schiavi (oggi definiti scafisti) senza scrupoli.

Il futuro dell’Africa passa, per ovvie ragioni, attraverso una migrazione interna ove le opportunità si facciano sentire a gran voce, ovvero i grandi progetti di sfruttamento delle risorse del sottosuolo, i mega progetti ingegneristici come strade, ponti, porti, elettrificazioni e molto altro ancora. Purtroppo anche questa transizione non sarà indolore, ma vedrà al suo interno sacche di violenza e di sfruttamento tra tribù e fazioni di nazionalità diverse.

Veniamo quindi al punto iniziale “Aiutiamoli a casa loro”; poche persone, se non una manciata, saprebbero veramente che cosa si potrebbe fare per migliorare le condizioni di vita dei popoli africani. Di base nessuno lo sa con certezza matematica nonostante ci siano tantissime idee altrettanto valide. Purtroppo, per mia esperienza diretta, avendo vissuto e lavorato in Mozambico e Tanzania per 6 anni e avendo viaggiato in vari paesi africani dal 2004, i progetti di cooperazione internazionale non riescono quasi mai a garantire una continuità, vuoi
per l’instabilità politica di alcuni Governi, vuoi per una mala gestione delle risorse economiche, 9 progetti su 10 iniziano con grande entusiasmo finendo per non ottenere quello che si erano prefissati come obiettivi principali.

Una possibile soluzione, al di là delle misure di prevenzione delle malattie, potrebbe essere quella di aspettare che le persone cambino atteggiamento nei confronti dell’Africa e che non definissero più i popoli africani come “loro”, i quali non siano più considerati solo delle tribù che vivono nelle capanne di paglia e che siano solo malati e malnutriti. I dati dell’OMS e della Banca Mondiale ci mostrano che in alcuni paesi africani il ceto medio stia migliorando e che la fame estrema e l’aspettativa di vita dei bambini non stia peggiorando, ma lentamente migliorando rispetto a 50 anni fa.

Bisogna sempre considerare le variabili impazzite che caratterizzano quasi tutti i paesi africani che riguardano per esempio le calamità ambientali, la gestione dell’acqua, le epidemie e per ultima, ma non per indice d’importanza, l’instabilità dei governi centrali i quali vanno quasi sempre a braccetto con il terrorismo di tutti i tipi. Per dare una piccola voce di speranza, vorrei soffermarmi su un progetto che sto seguendo personalmente in collaborazione con la Ong italiana CESVITEM che si chiama SubUrb (CLICCA QUI)il quale vede coinvolti alcuni residenti della periferia di Maputo in Mozambico. Quest’anno 2022 è in previsione l’attuazione della seconda fase del progetto che vedrà al suo interno lo sviluppo di una tecnologia artigianale per il riciclaggio e la trasformazione della plastica in oggetti semplici di uso comune (CLICCA QUI).

Il procedimento è molto semplice:
a) si disintegrano le varie plastiche riciclate, rendendole in polvere.
b) questa polvere viene estrusa e foggiata in forme sempre diverse.
c) si possono anche creare delle barre per poi farne vari oggetti e usi.

La cosa interessante è che i pezzi di ricambio si possono trovare in loco e non c’è bisogno di far sempre arrivare tutto dall’Europa. Questo progetto darebbe linfa vitale a un movimento con un forte taglio ambientalista e occupazionale per le persone più emarginate. Infatti, s’imparano le basi dell’elettronica, saldatura, lavorazione del ferro,
progettazione e tanto altro. Se a qualcuno venisse voglia di condividere il progetto, fosse interessato a partecipare o a sponsorizzarlo, oppure, semplicemente a passar parola è benvenuto.

Concludo dicendo che bisognerebbe accompagnare la lentezza che caratterizza Mamma Africa, con tutte le sue innumerevoli sfaccettature, facendosi attrarre dal suo eterno fascino incantatore.

Andrea Simoncini

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