L’Esortazione apostolica Querida Amazonia del 2020 ha moltiplicato l’interesse generale nei confronti di questa speciale regione del mondo che, caratterizzata nel contesto degli squilibri mondiali per aver conservato il proprio bioma, può rappresentare un paradigma ecologico di rigenerazione per l’intero pianeta.

Il fenomeno della justicia indígena s’inquadra in questo originale contesto e svela un diverso modo di affrontare il tema della giustizia. Si tratta di un tema seducente, per l’assoluta originalità di tante manifestazioni, anche se per certi aspetti rischioso, perché legato a tradizioni e riti che, pur se vagamente propagandati come “procedimenti giudiziari”, in realtà si alimentano di una pluralità di fonti ancestrali, legate alla costumbre, il mito, la spiritualità indigena, la leggenda, spesso incompatibili con lo stato di diritto ( Guido Guidi è l’autore di Justicia Indigena, appena dato alle stampe da Morlacchi Editore, n.d.e.).

L’amministrazione della justicia delle comunidades indígenas è caratterizzata dalla dimensione comunitaria del con-vivere e si regge su sistemi giuridici, il più delle volte, irrilevanti sotto il valore intrinseco delle culture, tutta via, è d’interesse per l’espressività delle formule di pluralismo giuridico che propone. Si fonda su presupposti socio-antropologici e tradizioni ancestrali, che caratterizzano la diversità di queste società particolari in senso comunitarista.

Mentre l’Occidente è prevalentemente monista, in ragione del predominio dell’individualismo egualitario, che determina esiti di unicità delle regole giuridiche, nelle comunità autoctone di Africa, Asia e America Latina, prevalgono altri valori, il più importante dei quali è la recriminazione delle diversità comunitarie, che inducono esiti di pluralismo giuridico all’interno degli stessi stati nazionali.

Nell’Occidente la comunità (meglio la società) è intesa come una somma plurale di monadi, spesso estranee tra loro, olistiche e talora inconsapevoli della propria socialità, dove lo Stato assolve soltanto la funzione di mediare tra i diversi interessi. Nelle comunità autoctone invece, prevale il senso di koinonia, perchè il legame che s’instaura tra gli individui non è soltanto di natura sociale, ma di koinè (unione), per il fatto che il singolo non gode di un’identità propria e il suo destino è definito dai contorni culturali e territoriali della comunità cui appartiene.

Nella visione occidentale dominano i diritti individuali, eguali e utili, unitamente al principio roussoviano della volontà generale, nelle comunità autoctone prevale invece la condivisione interpersonale, solidale, cosmica.

La cultura occidentale ha elaborato l’universalismo dei diritti personali, le tradizioni indigene la complessità dei diritti collettivi.

L’Occidentale è caratterizzato dal principio di tolleranza delle diversità. Fuori dal suo perimetro, è attribuita un’importanza primaria invece a «quelle concezioni e orientamenti morali condivisi, non ultime le tradizioni morali e religiose, sulla cui forza si basa la capacità di una collettività di indurre identificazione…» (A. Ferrara).

Pare del tutto evidente che la justicia indígena considera il mondo fenomenologico in una dimensione diversa rispetto alla visione euro-centrica.

In verità, nella cultura indigena il diritto è strettamente fuso con l’idea di cosmovisione, che condiziona ogni lettura delle manifestazioni del mondo naturale e sociale. L’uomo è considerato nella doppia dimensione fisica e spirituale. L’energia fisica umana deve essere in sintonia con le componenti animiste. La società necessita di persone sane di corpo e di spirito. I comportamenti umani devono essere valutati per la loro pregiudizialità sia nei confronti della comunità che della natura. Da qui la stretta compenetrazione tra sfera umana e sfera naturalistica, per non parlare della necessaria compenetrazione tra la sfera pubblica e la sfera privata.

L’Occidente interpreta la natura come un insieme di essenze da investigare, utilizzare, sfruttare, in funzione dell’umanità. Dentro questa concezione antropologica di tipo dualistico-separatista del pensiero moderno, la natura ha senso soltanto in una logica di contrapposizione con le opere umane. Una visione del tutto diversa domina invece  le cosmologie, antiche e più recenti, che includono in un’unica comunità: persone, animali e piante, quali entità costitutive di un sistema monistico e gerarchico, dove l’individuo è soltanto una delle cellule, anche se la più cosciente, di un unico sistema organizzato.

In questa visione totalizzante dell’esistenza, ogni violazione delle regole, pubbliche o private che siano, riveste una particolare gravità, perché interpretata come una ferita inferta all’insieme della comunità, dove la giustizia è chiamata ad assolvere una missione ripristinatoria degli equilibri spezzati.

D’innanzi a questo conflitto interculturale, tra due tipi di società differentemente concepite, sorge la questione della compatibilità tra l’universalismo liberale e il particolarismo delle identità comunitarie. È possibile ritrovare all’interno di questa contrapposizione una ragionevole composizione? È possibile delineare tra loro ragionevoli modelli di contemporaneità?

Secondo G. Sartori, per il quale il progetto multiculturale è in aperta contraddizione con il pluralismo liberale, il tema non è tanto quello di trovare un equilibrio tra universalismi e particolarismi, quanto quello di osteggiare le dottrine comunitarie, che antepongono l’uguaglianza alla libertà, mettendo così le basi per la «sepoltura del liberalismo».

Questa radicale conclusione non è tuttavia condivisibile in assoluto, per una serie di ragioni. Se l’universalismo liberale e gli universalismi etico-religiosi si possono ritenere ideologicamente incompatibili tra loro, fondandosi su due universalità potenzialmente totalizzanti, diversa è la questione della compatibilità tra l’universalismo liberale e il particolarismo delle comunità culturali. In questo senso, va rifiutata la concezione dell’esasperato individualismo atomistico di stampo liberista, per aderire alla concezione meno intransigente, del liberalismo intersoggettivo e comunicativo, come formulata da Habermas, che valorizza le tradizioni e le forme collettive d’identità, in funzione del riconoscimento dei diritti individuali. Del resto, «il fatto che le persone acquistino individualità solo passando attraverso processi di socializzazione, fa sì che il rispetto morale debba riguardare l’individuo sia come singolo insostituibile sia come membro comunitario». E poi «il riconoscimento delle divergenze – il reciproco riconoscimento dell’altro nella sua diversità – può diventare il segno di un’identità comune».

Anche Seyla Benhabib, filosofa della politica, ritiene che «all’interno di un modello di democrazia deliberativa, la sensibilità alla politica culturale e una posizione universalistica forte non siano inconciliabili». Questo perché una «democrazia deliberativa dinamica [può] riuscire a realizzare delle opportunità di massima autoascrizione e giustizia collettiva tra gruppi». In questo senso, inclusione democratica e conservazione delle culture si possono completare vicendevolmente.

Per la verità, nel contrasto tra liberali e comunitaristi non c’è un abisso, perché «ciò che i comunitaristi più accorti rivendicano è l’integrazione del pluralismo liberale con un’accentuazione del momento dell’appartenenza, dell’identificazione, della dedizione al bene comune».

Questa concezione è riprodotta fedelmente dalla Dichiarazione di Friburgo del 7 maggio 2007 che, all’art. 1, comma 1, riconosce che i diritti culturali «fanno parte integrante dei diritti dell’uomo e devono essere interpretati secondo i principi di universalità, indivisibilità e interdipendenza». “Interdipendenza” appunto, nel senso che nelle comunità autoctone gli individui formano un’entità unica, in stretta relazione simbiotica tra di loro e con l’ordinamento statale.

Ted Moses leader del Grande Consiglio dei Cris (movimento indigeno canadese), al riguardo dichiara: «Per le nostre culture il concetto di diritto individuale esiste solo all’interno della collettività. É dagli obiettivi comuni, dalle relazioni interpersonali e da quelle con la Madre Terra che derivano i diritti e le responsabilità dei singoli. Negarci il riconoscimento dei nostri diritti collettivi significa negare al singolo i vantaggi della nostra identità collettiva e quindi separare due cose che per noi sono tutt’uno».

Su queste basi le società latino-americane si possono definire organiciste, perchè gli autoctoni vi si ritrovano interclusi e il sistema dei diritti è dato dalla somma dei valori che le diverse koinonie, statali e particolari, riservano loro.

La decadenza dell’Occidente è in gran parte legata, come attesta la sociologia più accreditata, alla decadenza del senso di comunità.

Martin Heidegger interrogandosi sull’essenza dell’umanità, si domandava se fosse inarrestabile l’abbandono dell’individuo alla furia del pensiero utilitaristico e calcolante e ammoniva che, a seconda della risposta che si darà a questa domanda, si deciderà che ne sarà della terra e dell’esistenza dell’uomo sulla terra.

La riscoperta di forme di convivenza diverse, all’interno degli Stati nazionali, può indurre modalità esistenziali originali. Si tratta di ricercare formule di comunità che siano in grado di coesistere, come autonome aggregazioni giuridico-istituzionali, all’interno dell’involucro nazionale. La coesistenza va soprattutto cercata tra la diversità delle culture e l’uguaglianza della democrazia.

La globalizzazione, a causa della dimostrata idoneità di saper livellare ogni diversità sociale e culturale, ha scatenato le reazioni fondamentaliste più esasperate, in difesa, sia delle appartenenze religiose che nazionaliste. Per contrastare questi fenomeni servono nuove forme di reciproco riconoscimento sociale.

Allo scopo serve una rinnovata pedagogia della convivenza, che possa educare al senso di comunità in ogni ambito. Come sostiene Sandel: «Non impariamo ad amare l’umanità in generale, ma nelle sue espressioni particolari». Nello stesso senso, R. Rorty: «Il nostro sentimento di solidarietà è più forte quando colui cui è rivolto è considerato ‘uno di noi’, dove ‘noi’ designa qualcosa di più piccolo e geograficamente limitato dell’intera razza umana». Secondo Peces-Barba «La solidarietà rafforza così l’idea che un nostro progetto morale deve poter essere elevato a legge generale, dal momento che è costruito su basi comunitarie». In questa prospettiva, come sostiene il filosofo e politologo francese Pierre-André Taguieff, la comunità può fungere da “mediatrice di universalità”.

In data 8 febbraio 2022 la Camera dei deputati ha definitivamente approvato, in seconda deliberazione con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, il testo del nuovo art. 9 Cost,. ove nel terzo comma si legge: La repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Non è questo un primo significativo segnale del riconoscimento dei diritti collettivi e del superamento della rigida separazione tra natura umana e Natura?

Guido Guidi

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