Sebbene l’espressione aiutiamoli a casa loro ad un orecchio africano, quale il mio, rievochi dissonanze poco armoniose – come dovremmo ribattere: ‘grazie di esservi accorti di noi’? – come se, in mancanza di questo sguardo benevolo, non sapessimo come cavarcela e fossimo rimasti inermi ad accettare il nostro triste destino, occorre tuttavia riconoscere che è pur sempre un cambio di paradigma. Non che siano mancati e manchino progetti di Organizzazioni Non Governative (ONG) o progetti governativi italiani e di moltissimi altri paesi, che anzi se ne possono contare a migliaia nel continente. E sicuramente hanno dato un contributo difficilmente quantificabile ma non certo insignificante al miglioramento delle condizioni di vita di molti in Africa. E se è vero che in certe occasioni si è trattato di esperienze evanescenti che soddisfacevano più chi le faceva che i loro destinatari, sono innumerevoli gli esempi di opere a lungo termine e di successo, come, per citarne uno, le scuole iniziate e sostenute, a volte con eroismo, dalle e dai missionari, dei quali tutto si può dire tranne che non si siano spesi senza risparmiarsi. In molte nazioni del continente gli attuali quadri dirigenziali e politici spesso si sono formati in quelle scuole.

Fare un bilancio di quanto fatto e tentare di pianificare gli sforzi futuri è velleitario. Guardare al mero dato numerico del 2.1% del PIL mondiale attribuito all’intero continente africano nel 2020 può lasciare costernati. La realtà è che siamo di fronte ad una tipica questione complessa. Occorre farsene una ragione: non esiste un’unica soluzione semplice! Ben vengano quindi le iniziative come quella proposta, Suburban, che certamente fanno tesoro dell’esperienza – e soprattutto degli errori – di quanto accaduto finora.

Mi permetto di sottolinearne alcune caratteristiche significative. In primo luogo l’uso di tecnologia intermedia, accompagnata dalla facilità di reperire in loco le parti dei macchinari. Questa caratteristica da sola risolve il problema numero uno della maggior parte dei progetti: la manutenzione. L’esperimento, risoltosi poi con risultati molto inferiori agli obiettivi originali, dell’imponente progetto della Norad, organismo della cooperazione norvegese, che tra gli anni ‘70 e ’80 mise su un impianto di lavorazione del pesce nel Turkana in Kenya, con tanto di peschereccio e macchinari importati direttamente dal paese nordico – e che aveva come filosofia sottostante: dammi un pesce e mangerò oggi, insegnami a pescare e mangerò tutta la vita – la dice lunga sulla questione manutenzione. Inoltre l’acquisizione di competenze tecniche necessarie al funzionamento di macchinari non sofisticati è un valore aggiunto di grande rilievo.

A tale proposito vorrei spendere una parola in favore della necessità di rafforzare l’impianto di scuole tecniche già esistenti sul territorio, sia statali sia private. In Kenya, mio paese d’origine, operano con successo ad esempio istituti tecnici gestiti dai salesiani. Ma ce ne vorrebbero molti di più per far fronte all’inevitabile ed auspicabile incremento della domanda. È vero, i grandi progetti sono inevitabili e sono già in corso ma sarà il moltiplicarsi delle piccole e delle micro imprese che darà un assetto sostenibile all’economia dei vari paesi.

Non bisogna dimenticare che il grosso sbilanciamento economico che attanaglia il continente è perpetrato dalla scarsissima percentuale di lavorazione e trasformazione dei prodotti, a cominciare da quelli dell’agricoltura. A cosa serve avere una sterminata produzione di banane quando se ho bisogno di banane disidratate o liofilizzate sono costretto ad importarle? Con l’aggravante che il prodotto grezzo, se esportato, è venduto a prezzo basso, mentre il prodotto lavorato deve essere importato e pagato in valuta pregiata.

In breve i progetti validi sono quelli che attraverso la lavorazione – food processing – aggiungono valore ai prodotti agricoli – value addition.

È vero, gli africani sono attratti dall’Occidente, soprattutto dagli Stati Uniti, dove si trovano le più grandi comunità di quasi tutte le tribù d’origine. È tragicomico, quasi grottesco che soprattutto dalla metà del secolo scorso gli africani abbiano fatto carte false pur di assicurarsi un posto esattamente là dove pochi secoli prima vi erano stati condotti a forza in schiavitù, tra stenti, sofferenze e morte, per non parlare dell’umiliazione. D’altra parte che fareste voi al posto loro? Le migrazioni sono una necessità, da sempre. Dategli pure il nome che volete: ci saranno sempre! Non deve sfuggire tuttavia l’elemento di nostalgia, di tristezza a volte, malcelato dalla necessità e dall’imperativo di assistere economicamente chi è rimasto in patria. Nessuno si sposta se sta bene dove si trova.

Un’ultima considerazione sulla cooperazione, che forse dovrebbe venire prima di tutte le altre considerazioni. In qualche maniera l’occidente si compiace della generosità di cui è capace. Gli spot pubblicitari che ci invitano e quasi ci supplicano con voce suadente a donare pochi spiccioli al mese in favore dei “meno fortunati”, mostrandoci bambini malnutriti e spesso con mosche sul volto – adesso meno, devo dire – hanno un che di sinistro, non facilmente decodificabile. Sapete qual è il titolo di un libro della donna Ph D in economia, forse la più influente al mondo in ambito finanziario, tal Dambisa Moyo, dello Zambia e che siede nei consigli di amministrazione di potenti società finanziarie americane? Ebbene il titolo è: Dead Aid, che tradotto significa ‘aiuto morto’. Si riferisce appunto a tutti gli aiuti che l’Occidente a vario titolo distribuisce ai paesi in via di sviluppo. Si tratta di fondi che in ultima analisi servono a fornire denaro contante affinché quei paesi possano acquistare i beni prodotti nei paesi ricchi, perpetuando così la spirale infinita di dipendenza. Geniale, no?

Lungi dall’essere un atto di generosità è la più cinica delle forme di soggiogamento economico, col vantaggio non trascurabile di fare bella figura. Le cose naturalmente sono ancora più complesse di questa semplificazione, che seppure tale, mantiene inalterato il suo valore analitico.

Per portare un po’ di equilibrio a livello mondiale sarebbe sufficiente un bilanciamento delle tariffe sulle importazioni, attribuendo più valore alle materie prime e un po’ meno ai manufatti. “Ma così aumenta il prezzo delle banane, del the, del caffè! Già l’inflazione è così alta!”. Ma allora li vogliamo aiutare a casa loro, sì o no?

Damaris Mwari Mugambi

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